“Agenda 21” segna il ritorno di una band della quale si erano perse un po’ le tracce: fondata nei dintorni di San Francisco negli anni novanta, la formazione dei fratelli Jasun (chitarra) e Troy (basso) Tipton aveva successivamente pubblicato ben sei album tra il 1998 ed il 2008. Un infortunio occorso a Troy, che gli avrebbe impedito di continuare a suonare il basso, fu una delle cause dello scioglimento degli Zero Hour a seguito della pubblicazione di “Dark Receiver”, ma la voglia di suonare deve aver prevalso se oggi ci troviamo a salutare questo ritorno. Mantenendo il membro originario Erik Rosvold alla voce ed integrando la line-up con Roel van Helden alla batteria ed Andreas Blomqvist al basso (quest’ultimo ascoltato recentemente nei Seventh Wonder), gli americani propongono un’autentica opera in sei tracce incentrata sui temi della vita, del sentimento, del controllo sociale e della politica, caratterizzata da uno sviluppo esteso ed arioso delle stesse. Trattandosi di brani di matrice progressiva, la cui durata va dai cinque ai quattordici minuti della title-track, è possibile in un certo senso anticipare i contenuti di “Agenda 21” ancor prima di procedere al suo ascolto. Come sarebbe logico aspettarsi, grande attenzione è stata riservata alle parti strumentali, rese uniche e distintive non solo dalla tecnica applicata, ma anche dai diversi mood che caratterizzano i vari momenti, anche all’interno della stessa canzone. “Democide” è in questo senso emblematica, e perfetta per offrire – in un’unica soluzione – tutto quanto ritroveremo nel corso dell’ascolto completo: il passaggio dai momenti più tesi e sincopati ad altri più contemplativi e sensibili è fluido e coerente, come si conviene ad una buona narrativa, e l’effetto “patchwork” è evitato con tutto il mestiere che musicisti attivi da così tanti anni portano necessariamente in dote.
Se dal punto di vista dell’imbastimento generale “Agenda 21” presenta una forma bella e compatta, non deludendo le attese degli appassionati, è forse il bilanciamento tra melodie e parti strumentali che potrebbe non accontentare proprio tutti. Con la possibile eccezione della dolce “Memento Mori” e di una title-track in un certo senso più accessibile, il resto del disco sembra uno di quei prodotti ai quali le linee vocali sono state applicati in un secondo tempo, assumendo il ruolo di uno strumento aggiunto e rinunciando a quello di vero filo melodico e conduttore. Una scelta questa non inedita, ma che forse priva alcune tracce (come “Stigmata”) della possibilità di svilupparsi in modo più tradizionale, e non per questo meno efficace né interessante (che quasi quasi mi è venuta voglia di riascoltare “Operation Mindcrime”). Nonostante quindi la performance appassionata – ed in un certo senso teatrale – di Rosvold, la sostanza degli Zero Hour è oggi quella di una band interessata prevalentemente alla forma strumentale, attraverso la quale raggiungono la maggiore densità, l’espressività più convinta e con essa la capacità di attrarre e coinvolgere già a partire dai primi momenti. Non si potrebbe spiegare diversamente la facilità con la quale i minuti scorrono, con un ritmo quasi cinematografico, senza che anche le durate più estese possano diventare un motivo di preoccupazione: approfittando dei cinquanta minuti a disposizione, la formazione dei fratelli Tipton dipinge quadri foschi ed improvvise schiarite (“Technocracy”), applicando un tratto ora più leggero ed altre volte decisamente più pesante, grazie soprattutto alla velocità dell’esecuzione e la complessità delle ritmiche. Quasi inutile infine soffermarsi sulla bontà della produzione, pulita come il genere richiede ed in grado di esaltare i singoli passaggi mantenendo una separazione tra gli strumenti di una freddezza quasi chirurgica.
In virtù della tavolozza di colori virtualmente illimitata che chi suona prog si incarica di spalmare, “Agenda 21” è un disco che fa della libertà espressiva e dell’uso brillante delle figure retoriche (come le frequenti accelerazioni sincopate) i suoi punti di forza, senza che gli stessi debbano necessariamente assolvere anche alla funzione di elementi distintivi. Il nuovo disco degli Zero Hour diventa allora una testimonianza davvero apprezzabile da parte di una realtà ferma al box da tanti anni, e che con questi sei momenti dimostra senza mezze misure di non aver perso l’antico smalto. Allo stesso tempo, se il test di resilienza può dirsi superato senza affanni, la sensazione è che – una volta tolti gli ultimi residui di ruggine – una realtà come questa possa tendere ad imprese più grandi, che vadano oltre la semplice – benchè tecnicamente sofisticata – riproposizione di sé.