Wooden Veins – Recensione: In Finitude

Nell’immaginario comune, la musica sudamericana viene comunamente associata a quelle sonorità latine che spopolano sulle piste da ballo o rimbombano nell’autoradio di qualche tamarro di periferia. In realtà, nel corso degli anni, i Paesi del Sud America hanno offerto agli aficionados di rock e metal valide e variegate proposte musicali, diventando per altro tappe obbligate dei tour mondiali di numerosissime band della scena metal e underground, segno di un vivido interesse per dei sottogeneri che in tante altre parti del globo vengono tristemente snobbati.

Sorprende tuttavia il vento gelido e sferzante che sembra risuonare insito in “In Finitude”, disco di debutto dei cileni Wooden Veins. La band, formatasi nel 2020 da ex membri dei Mar De Grises e dei Mourning Sun, vanta una certa esperienza nei meandri del doom ed è maestra nel creare le atmosfere oscure e pesanti che caratterizzano il genere; non manca però l’impulso alla personalizzazione del proprio universo sonoro, che porta gli stessi componenti del gruppo a definire la propria musica come strettamente legata al cosiddetto “avant-garde metal”. Se la commistione di generi e le varietà di influenze sono facilmente tangibili, si perde forse un po’ l’elemento avveniristico; gli otto pezzi che compongono il disco e accompagnano l’ascoltatore per 48 minuti presentano uno schema tutto sommato abbastanza riconoscibile e ben definito: voce pulita e melanconica, chitarra in primo piano senza risultare invadente, tastiere, batteria pervenuta talvolta solo in sottofondo. È sicuramente molto buono il lavoro svolto a livello di elettronica nella creazione di atmosfere fredde e al tempo stesso avvolgenti, così come lo studio ragionato attorno ai testi: le liriche sono infatti tratte da un libro intitolato “Poética de Arturo H. Lobos”, edito dallo stesso vocalist Javier Cerda, in cui filosofia e psicologia si intrecciano e toccano con onirica lucidità i grandi temi esistenziali – un’altra non novità, certo, ma onore al merito di averci messo del proprio.

Significativa e azzeccata la scelta di “The Veiled Curse” come singolo d’apertura: è il brano del disco che riassume tutte le caratteristiche della band e permette di apprezzarne la caratura a livello compositivo/ambientale. Si percepisce come un senso di sospensione sensoriale, elemento che caratterizza anche altri brani di “In Finitude”; viene semplicemente voglia di chiudere gli occhi e seguire la corrente del suono, cullati dalla bella voce di Cerda – che a tratti è paragonabile a quella morbida e sensuale di Dave Gahan.

Funziona bene anche “Beyond Words”, il secondo singolo estratto in attesa della pubblicazione del disco, prevista per il 4 giugno. Il brano è il più vivace del disco e si fa strada sicuro tra un galoppante blast beat e cori dal sapore gregoriano, mentre Cerda canta di quelle pulsioni nascoste che permettono all’essere umano di andare avanti giorno dopo giorno, nonostante le avversità.  Regalano atmosfera e piacevolezza sia “Herradura (by the sea)” che “Mirages” – la prima più delicata, la seconda apparentemente più incanzereccia, almeno fino a quando non resta come assorta su accordi di chitarra e una batteria jazz. Il momento più sperimentale del disco arriva invece con “Empty Arcs”, dove finalmente troviamo l’avanguardia grazie ad un dosaggio potente (ma ragionato) dell’elemento elettronico, a discapito però di quello metal – dovendo andare in cerca di definizioni, lo potremmo chiamare “avant-garde alternative rock”.

Nel complesso, “In Finitude” è un buon disco di debutto. Non perfetto, ma appassionato e sincero. Ci sono buone possibilità che faccia breccia nel cuore degli amanti del doom che non si lasciano spaventare dalle contaminazioni, o più semplicemente che se ne fregano delle etichette. Intanto, dal Cile, è buona la prima!

 

Etichetta: The Vinyl Division

Anno: 2021

Tracklist: 01. Thin Shades 02. Beyond Words 03. Herradura (by the sea) 04. Mirages 05. The Veiled Curse 06. Invern 07. Empty Arcs 08. In Finitude

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