Recensione: What We All Come To Need

Un premio per il coraggio. Sì, perché una band come i Pelican se ne frega letteralmente dei cliché imposti dal music business e nell’anno del Signore 2009 partorisce un album interamente strumentale. Un’opera difficile quella che si sublima in “What We All Come To Need”, ancora di più in ragione di ciò che il combo dell’Illinois offre all’ascoltatore: post hardcore elegante, misto a frammenti doom/stoner e post rock.

Le chitarre di Laurent Lebec e Trevor De Brauw tessono trame dilatate e sensuali. Con un occhio per l’orecchiabilità, i riff di chitarra sposano la causa dei Black Sabbath e dei Tool, con divagazioni siderali che ricordano una versione mostruosa, o forse evoluta, fate voi, del lato oscuro dei Pink Floyd. La mancanza di voce, presente solo nei cori della conclusiva “Final Breath”, non rappresenta a nostro giudizio una grande mancanza. Dipende da come vedete le cose: “What We All Come To Need” non è di per sé (e non vuole essere) un ascolto di facile assimilazione. La band si diverte a creare spazi lacerati ma sinergici, che vanno dal doom nudo e crudo di “Glimmer” alle dissonanze estreme in chiave sludge/stoner di “The Creeper”, per arrivare ai momenti dilatati della titletrack.

La presenza in veste di guest di Greg Anderson dei Sunn O))) e di Aaron Turner degli Isis, rappresenta il valore aggiunto di un’opera elitaria, un percorso musicale armonico ma estremamente personale, frutto della passione più pura. Ed emettere un giudizio numerico, sarebbe quantomeno sbagliato.

Andrea Sacchi

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Poser di professione, è in realtà un darkettone che nel tempo libero ascolta black metal, doom e gothic, i generi che recensisce su Metallus. Non essendo molto trve, adora ballare la new wave e andare al mare. Ha un debole per la piadina crudo e squacquerone, è rimasto fermo ai 16-bit e preferisce di gran lunga il vinile al digitale.

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