Wacken Open Air 2006: Live Report

Intro: it’s a long way to the top…

Si parte mercoledì sera, pronti ad affrontare i 1250 chilometri che ci separano dalla capitale del metal; una panda con 100.000 km sul groppone, 4 pazzi, altrettanti pacchetti di sigarette. Sedici ore di viaggio e finalmente uno striscione ci accoglie, ‘welcome to wacken, metalheads’, e in effetti qualcosa intorno a noi è cambiato: nonostante il paesaggio bucolico siamo circondati da un’orda infinita di metallari che attendono paciosi il loro turno per entrare nell’enorme campeggio, che ospiterà alla fine circa 50.000 persone…mentre gli autoctoni non appaiono minimamente infastiditi, anzi. Tutti sorridenti, in molti sfoggiano le magliette del festival e si preparano ad offrire aggiuntivi banchetti dove pasteggiare e sorseggiare birre fatte in casa direttamente nel giardino delle loro detached-houses. L’anno prossimo al Gods proviamo a chiedere la colazione a qualche gentile famigliola di Segrate…

Purtroppo la registrazione, l’ingresso al campeggio, il trascinamento di una cassa di birra per qualche chilometro e il viaggio alle spalle ci sprofondano in un coma (poco) vigile, da cui drammaticamente ci sveglia Klaus Meine quando annuncia sul palco mr. Uli Jon Roth: aaargh, sono le 23!! Il concerto degli Scorpions sta già per volgere al termine tra le rentrée eccellenti del suddetto Roth e di Michael Schenker e io mi limito ad ascoltare con una lacrima agli occhi un paio di splendidi assoli, consapevole che la distanza tra la mia tenda e il palco non sarà mai colmabile prima della fine del concerto. Concerto che, mi ha confermato chi ha assistito, è stato di grandissimo livello, scarsamente indulgente (nonostante in Germania, pare, gli Scorpions possano permettersi anche di suonare mazurke ricevendo applausi commossi) e pieno di energia…e fuochi d’artificio! Sia benedetto il buon gusto crucco!

Chapter one: These boots are made for walking…

Ancora in dormiveglia, nella tenda arriva l’esibizione dei Mystic Circle, mixata a ‘The origin of the feces’ dei Type O Negative, che alcuni vicini furgonati gentilmente sparano a un volume assurdo… il combo tedesco offre un death-black senza nè lode nè infamia, che mi ricorda parecchio i Dissection: giudizio comunque sospeso in attesa di vederli e non sentirli solamente da un chilometro di distanza. Evento che peraltro non attendo con tale ansia, ammettiamolo.

Dopo il caffe’ d’ordinanza e l’ottenimento del preziosissimo braccialetto l’area concerti ci accoglie e la visione è commovente. I due palchi principali sono enormi, l’organizzazione, sia tecnica che per il ristoro, appare subito impeccabile…

Passano abbastanza indifferenti le esibizioni dei Wintersun, autori di un post-death molto tecnico con qualche puntatina depressiva tipica di tanti gruppi finlandesi, e dei Born From Pain, che già dal logo che campeggia dietro di loro non nascondono la somiglianza coi Devildriver; un gruppo dal forte impatto hardcore che, nonostante la lunga gavetta e il buon impatto dal vivo, non mi colpisce per originalità.

Con grossa curiosità mi reco al W.E.T. stage per assistere all’esibizione degli italiani Cadaveric Crematorium, gruppo bresciano vincitore della Metal Battle, di cui il mio amico Luca mi ha tessuto le lodi per tutto il viaggio…e a buona ragione. Nonostante la non-immediatezza della proposta (un brutal-grind di ottima fattura) la resa dal vivo della band è eccellente, i pezzi – che mi sembra di capire sono tratti principalmente dal loro ultimo lavoro Serial Grinder – hanno una complessità e un impatto fisico e sonoro devastante, ma il quintetto non sembra minimamente affaticato: divertono e si divertono e regalano un paio di bei siparietti con la cover di ‘You suffer’ dei Napalm Death e con l’immancabile accenno del tormentone mundial di ‘Seven Nation Army’ che provoca delirio e commozione tra i tanti italiani presenti. Un gruppo che ignoravo e consiglio caldamente di tenere d’occhio.

Finita la mezz’ora tricolore ascolto con piacere l’esibizione di un Danko Jones travestito da pirata, anche se poi si scoprirà che la benda non è un vezzo ma la conseguenza di una recente operazione alla retina…il suono del trio canadese è decisamente debitore verso gli AC/DC, con qualche spruzzatina di post-rock inglese, ma pezzi come ‘Hard woman’ e ‘Tricky situation’ sono decisamente accattivanti e fanno presa sul pubblico, che inizia a farsi sempre più numeroso.

Appena 10 minuti di intervallo, e con la più assoluta precisione teutonica salgono sul black stage i Six Feet Under; e si inizia a fare sul serio. Nonostante non abbia una smisurata passione per la voce monocorde di Barnes (mentre adoro i Cannibal Corpse con l’ugola di George Fisher: classici dualismi della storia della musica?), dal vivo il suono compatto e lo psicotico tappeto vocale creano un impatto decisamente notevole…nella scaletta proposta si segnalano ‘Impulse to disembowel’, ‘Shadow of the reaper’ e soprattutto la cover di ‘TNT’ degli AC/DC, che in realtà non si discosta molto dall’originale se non per il cantato vomitato del nostro.

Passano via molto indifferenti e con scarsa affluenza sotto palco i Nevermore di un Warrel Dane che personalmente avevo già trovato fuori fase al Gods due mesi fa e che qui conferma tristemente la sensazione; un vero peccato, perchè la band suona in maniera eccellente, anche se i pezzi successivi a ‘Dead heart in a dead world’ sembrano segnare decisamente il passo.

A seguire si esibiscono contemporaneamente Opeth e Soilwork: i primi sul Black Stage, mentre gli altri sul ‘piccolo’ Party Stage, in realtà più grande del palco del Rolling Stone di Milano, per intenderci. Alla terza esibizione diurna dei miei amati Opeth cui assisto preferisco stendere un velo pietoso: la sensazione è sempre quella di ascoltare un loro album a volume bassissimo e senza alcun essere umano sul palco; per fortuna arriva un pò di pioggia a portarmi in cerca (più o meno) di protezione e lontano da questo straziante show…

Mentre il vento ci consegna il suono degli In Extremo (per giungere ai limiti estremi del campeggio dall’area concerti ci vogliono circa 40 minuti…), inizia a spiovere e sono pronto per l’attesissima esibizione dei Carnivore. Riformatisi per l’occasione dopo quasi 10 anni, con un’inedita formazione che vede 2 membri dei Metal Health Association, Joey Z dei Life of Agony chitarra solista e il mitico Pete Steele unico membro originale, i nostri cavalcano l’attesa con savoir-fair. Il palco e la strumentazione, in tradizione Type O Negative, sono di un minimalismo assoluto, un tripudio di bicromatismo rosso e nero dietro cui campeggia il logo della band… annunciati da una lunga intro fanno il loro ingresso capeggiati dal monumentale Pete, per una sfuriata di circa 30 secondi cui seguono saluti e ringraziamenti: i quattro se ne vanno lasciando il feedback nelle orecchie e non pochi pensano che lo spirito irrisorio si spinga al punto da far concludere realmente qui lo show..ma dopo pochi minuti ritornano, per regalarci in una sequenza spintissima pezzi ultracarichi come ‘Technophobia’, ‘Race War’ e ‘Male Supremacy’ sulle quali il pogo inizia ad acquistare di senso. Tornando ai nostri newyorchesi, si tratta decisamente di uno show annichilente, in cui regalano praticamente tutti i pezzi della loro breve discografia, risparmiando con buon gusto la performance di ‘Jesus Hitler’ e rivoltando lo stomaco ai più nell’intermezzo di ‘Jack Daniel’s & Pizza’.

Thrashcore da nostalgia, con un Peter Steele al solito più votato a bere vino che a intrattenere rapporti umani, ma alla fine è questa misantropia (da operetta?) ciò che ce lo fa amare.

Dopo aver perso un paio di chili in sudore e con un minimo rimpianto per non aver sentito nemmeno una nota dei Korpiklaani (l’anno prossimo mi donerò di ubiquità) mi prendo una pausa a base di wurstel e patate e ascolto comodamente seduto i Children of Bodom, uno dei gruppi più attesi, a giudicare dalla quantità di gente che si assiepa sotto il True Metal stage per la loro esibizione. Esibizione fatta con la maestria (ma anche la noia) di chi sa fare il suo mestiere, e sa di poterlo fare senza necessità di stupire una platea già adorante. Vengono passati in rassegna praticamente tutti gli album della loro carriera, e quelli che sono ormai moderni classici come ‘Follow the reaper’ o ‘Red light in my eyes’ vengono alternati con i pezzi dell’ultimo ‘Are you dead yet?’. Buona esibizione, buon tiro, ma un certo eccesso di tecnica rispetto al cuore fa sì che il coinvolgimento sia ‘for fans only’.

Mentre calano le tenebre sulla Germania e l’enorme testa di bisonte metallica che campeggia tra i 2 palchi prende fuoco, sul palco compare un mitico dipinto di H.R.Giger: Satana ci osserva e ci punta con una fionda che altro non è che il corpo di Cristo. Signori, è tempo dei redivivi Celtic Frost!

Cosa dire di questa esibizione? A scanso di equivoci, chi scrive queste righe indossa una maglietta di ‘To Mega Therion’ sopravvissuta con orgoglio agli anni ’80….eppure lo show di Tom Warrior & co. è la più grande delusione degli ultimi mesi; beh, la seconda, dopo la pacchianissima esibizione dei Venom in quel dell’Idroscalo.

Beninteso, i nostri suonano bene, e a distanza di 15 anni dimostrano ancora di saper tenere un palco, ma forse uno di quei palchi di media dimensione che calcavano a metà anni ’80 e in cui forse la vicinanza del pubblico poteva aiutarli nel trovare il giusto grado di coinvolgimento…i pezzi dell’ultimo ‘Monotheist’, già di per sè lontano dal far gridare al miracolo, si mischiano senza soluzione di continuità a classici immensi come ‘North winds’ o ‘Caress into Oblivion’, che sembrano venir permeati dal sound assolutamente monocorde dell’ultima release.

Un vero peccato, ma se non altro vado senza troppi rimpianti ad ascoltarmi gli Hellfueled, che confermano l’ottima opinione che mi ero fatto sentendo i loro 2 dischi: diretti, coinvolgenti, ottimi musicisti. Nonostante le non poche somiglianze con l’Ozzy di era Zakk Wylde o con gli stessi Black Label Society, persino nella lunghezza delle barbe, un gruppo interessante e un live act di grande livello.

Anche se la quantità di magliette diffuse fa capire che ormai ci sono solo orecchie per gli Amon Amarth, è finalmente tempo del vero evento della serata: signore e signori, mr. Al Jourgensen and the Ministry! Annunciati da un’intro con la voce campionata di George Bush (di cui si alterneranno molte immagini nella sequenza ambientalista, antimilitarista e gloriosamente anarchica offerta dal maxischermo) i nostri salgono sul palco e si scatena il pandemonio: una sequenza tritacarne che pesca principalmente dagli ultimi 2 album e dai grandiosi Filthy Pig e Psalm 69: Lava-Waiting-N.W.O.-Warp City-Just One Fix-Psalm 69…scrivere una sequenza ininterrotta e sclerotica è l’unico modo per rendere in parte il viaggio all’inferno sonoro che ci offre, dietro l’asta del microfono ammortizzata fatta di ossa e residui di un chopper, il folle Al in buona compagnia della sua band. Enormi.

Mentre le orecchie ancora ronzano ascolto interessato gli attesissimi vichinghi Amon Amarth, ma devo dire che la sensazione che mi danno i loro dischi è confermata dal vivo: epici e coinvolgenti per un quarto d’ora, poi puri clichè: i ragazzi con le magliette ‘Oden Stalt Jesus’ (Odino batte Gesù – diffusissime) possono essere felici, ma i Bathory erano decisamente un’altra cosa. Torno così tranquillamente in tenda evitando un pò di caduti da alcool e stanchezza, mentre sul terzo palco conclude la propria esibizione un’ottima cover band dei Judas Priest: ops, scusate: erano i Primal Fear

Chapter two: it’s a (real) heavy metal universe

Arriva così l’ultimo giorno; dopo esserci goduti la prima doccia dopo 3 giorni e una discreta colazione nel cortile di una gentile famigliola di Wacken mentre in sottofondo si alternano gli Aborted e i Caliban prima dell’esibizione degli Arch Enemy: un cantato così violento dall’ugola di un angioletto come miss Gossow fa sempre un certo effetto, ma il puro stupore dura poco, soppiantato dalla buona e quadrata esibizione dei nostri. Il concerto è quasi interamente incentrato su pezzi tratti dagli ultimi 2 album, con in particolare una ‘We will rise’ che segna decisamente l’apice dell’esibizione, anche quanto a coinvolgimento.

Nemmeno il tempo di commentare che è subito il turno dei Fear Factory e… quanta tristezza! Contrariamente alla buona impressione che mi avevano fatto nella loro esibizione milanese, qui i 4 appaiono alquanto fuori forma e Burton C. Bell dà sensazioni analoghe alle unghie sulla lavagna: gonfio, spompato, senza voce, toglie totalmente mordente persino a pezzi come ‘Self Bias Resistor’ o ‘Replica’ e diventa persino patetico allorchè viene proposta una cover smozzicata di ‘Walk’ dei Pantera. La speranza è che il povero Dimebag, a cui il pezzo è stato ovviamente dedicato, fosse girato dall’altra parte.

A seguire le esibizioni di Morbid Angel e Orphaned Land, per l’ennesima volta in contemporanea, che cerco di seguire alternativamente anche se, complice forse una maggior esperienza e un certo Pete Sandoval dietro le pelli, i 4 floridiani stravincono il confronto sul pur apprezzabile combo israeliano. Il redivivo David Vincent è un ottimo e luciferino maestro di cerimonia, per un’esibizione compatta, tecnicamente eccellente e forse solo un pò penalizzata da dei suoni un pò troppo pastosi. Sugli scudi l’esecuzione di ‘Eyes To See, Ears To Hear’ da Domination.

Attesi ma meno di quanto pensassi (alla fine giocavano in casa più di chiunque altro) salgono sul palco i Gamma Ray e come sempre offrono una prova convincente, divertente e coinvolgente; aprono le danze con ‘Send Me A Sign’ da Powerplant, da cui recupereranno poi anche un inno del calibro di ‘Heavy Metal Universe’; ancora, pur trascurando come ormai d’abitudine i primi album, regalano gioie e danze al pubblico con pezzi quali ‘Man On A Mission’, ‘Valley Of The Kings’ e ‘Rebellion In Dreamland’, in cui viene inserita per intero ‘I Want Out’, e più di una persona spera di veder balzare fuori, a sorpresa, un redivivo Michael Kiske. I crucchi estraggono solo ‘Blood Religion’ dall’ultimo e non troppo esaltante ‘Majestic’, brano che sembra dare finalmente un minimo di spazio all’anonima figura del tastierista, un ragazzo finlandese decisamente poco avvezzo a calcare i palchi. A fine concerto resta come sempre l’impressione che, pur con alti e bassi, il power metal sia iniziato e finirà col signor Kai Hansen…

Ancora un’ora di alternanza in cui cerco di seguire sia i Soulfly che gli Atheist; questi ultimi sono autori di una prova notevole, con le loro ritmiche e cambi di tempo schizoidi, che però non sembrano affaticare la band, visto che il cantante Kelly Shaefer trova anche il tempo di arringare la folla che accalca il Party stage sottolineando di lasciar pure divertirsi ‘quelli dall’altra parte…’; parte e palco dove comunque troviamo un Max Cavalera in ottima forma sia fisica che vocale, che trascina il suo pubblico in un pogo notevole con pezzi tratti soprattutto dall’ultimo ‘Dark ages’ e fa scendere qualche lacrima nostalgica allorchè regala ai presenti ‘Roots bloody roots’.

È finalmente il turno dei Whitesnake e dalla posizione defilata in cui li seguo non mi sembra di cogliere un grande entusiasmo da parte dei presenti: peccato, perchè la prova del gruppo di Coverdale è eccellente. Melodie calde, avvolgenti e la solita passione trasudano, mentre vengono sciorinati classici del calibro di ‘Still of the night’, ‘Love Ain’t No Stranger’ o ‘Wine Women And Songs’; da segnalare poi un suadente assolo in tapping del chitarrista “storico” Doug Aldrich, che però non coglie ancora l’attenzione di chi si sta già assiepando al palco in fianco per un evento di un certo livello.

I riformati Emperor son pronti a inondare di nera cattiveria il Wacken! Non so quanto durerà questa reunion, ma va detto che l’esibizione di Samoth, Ihsahn, Trym e soci è davvero di altissimo livello; con una scenografia scarna in cui emergono solo i nostri 5, nerovestiti e statici come inquietanti statue, riescono a catturare l’attenzione grazie al carico di gelidi riff che sciorinano a profusione, pescando indifferentemente da ‘Anthems at the welkin at dusk’, ‘IX equilibrium’ (splendida e glaciale la title-track) e giù giù fino al prevedibilissimo finale affidato all”Inno a Satana’, che, invocato dalla folla, sembra far scendere davvero nere ombre sul festival. Decisamente una band dal calibro superiore a tutta la scena (o quello che ne resta) norvegese, in attesa almeno di assistere al già annunciato comeback degli Immortal per il W:O:A del 2007…

Mentre sul terzo palco concludono la loro esibizione i divertenti Die Apocalyptischen Reiter, ecco quindi arrivare il quarto d’ora più lungo, poichè è evidente che l’attesa era tutta per loro.

Per la prima volta in 2 giorni il pubblico è realmente tutto presente e si vedono 50.000 teste pronte a sbattere furiosamente: ‘Good evening! We’re Motorhead, and we play Rock n’roll!’; non serve altro per annunciare mr. Lemmy Kilmister e i suoi degni scudieri Phil Campbell e Mikkey Dee. 75 minuti tiratissimi, uguali a tutti i precedenti concerti e per questo bellissimi, in cui finalmente la furia si scatena e il sudore prende a scorrere (assieme a parecchie botte!) sotto il palco…i classici ci sono tutti, da ‘Stay Clean’ a ‘Iron Fist’, da ‘Ace Of Spades’ (accolta da un boato analogo a quello sentito sul goal di Grosso) a ‘Killed By Death’, in cui Lemmy si fa accompagnare da una dotatissima e misteriosa cantante che decisamente non cattura l’attenzione del pubblico per le sue doti vocali…

E in mezzo spazio per un’anteprima dal nuovo album, che dovrebbe intitolarsi ‘Kiss of death’ ed uscire a giorni, e per l’ennesima esecuzione di ‘R.A.M.O.N.E.S.’. Un’esecuzione tritaossa e come sempre fantastica, un evento che si sa sempre identico ma di un livello tale per cui tanti musicisti osannati in questi 2 giorni dovranno ancora fare tanta strada…per non giungervi mai.

Anche se appare inconcepibile suonare dopo Lemmy, passano solo 10 minuti, e a tirare il sipario sul Black stage ci pensano i divertenti Finntroll, che paiono aver richiamato una folta schiera di pubblico: pubblico che decisamente non andrà aumentando dopo l’esibizione di questa sera, poiche un vento non indifferente e un soundcheck pessimo fanno praticamente sparire i preziosi inserti di mellotron e tastiere e impastano mostruosamente le chitarre, trasformando gioiellini elaborati come i numerosi estratti da Jaktens Tid in cacofoniche cover dei Mayhem…un vero peccato, ma evidentemente la dimensione ideale per questa band resta quella del club, con fedeli fan pronti a saltellare a suon di ‘oompah metal’.

Gli ultimi irriducibili tedeschi attendono a questo punto l’esibizione dei Subway to Sally, band di culto in patria e che, pare di aver capito, darà stasera l’addio alle scene. Purtroppo noi salutiamo il grazioso paesino trasformato in capitale dell’heavy metal senza sentire una nota di questa band e senza goderci il gran finale di fuochi d’artificio: resta solo un senso di appagamento profondo e raro, rafforzato dall’eccellente organizzazione che, temo, non vedremo mai nel nostro paese; e naturalmente un grande entusiasmo, che nelle ore a venire divideremo con le occasionali macchine di metallari che ci affiancano in autostrada e con cui scambiamo saluti a corna al cielo.

Auf wiedersen, metalheads!

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