Non è chiaro come l’attesa per l’inizio della giornata sia così lunga quando la durata dei vari show sembra essere troppo corta ma si sa, questa è una regola fissa nei vari festival estivi dove le ore di sonno si riducono al minimo lasciando spazio al divertimento e al conto alla rovescia per la giornata successiva. Purtroppo quest’oggi le nuvole copriranno il cielo per gran parte del tempo, il che ovviamente non è mai un buon presagio, considerando anche la difficoltà con la quale si sceglie l’abbigliamento giornaliero, ma dando (forse troppa) fiducia ai pochi raggi di luce che zampillano fuori dai grandi agglomerati di vapore d’acqua, decido ugualmente di optare per un abbigliamento leggero, al quale va aggiunta una bandana con la funzione principale di bloccare in parte il muro di polvere che senza ombra di dubbio verrà alzato tra uno show e l’altro.
FREEDOM CALL
Come al solito, presa la macchina fotografica e armato del mio programma giornaliero, mi avvio nel mio comunque non indifferente cammino verso l’area concerti, giusto in tempo per l’inizio dello show dei tedeschi Freedom Call (nei quali, fa piacere ricordarlo, milita anche il bassista italiano Francesco Ferraro). La band power metal vanta già a inizio show un gran numero di spettatori presenti sotto il palco, che ruggiscono al suono dell’intro “M.E.T.A.L.” che accompagna i nostri sul palco precedendo il primo brano in scaletta, “Union of the Strong” che, come da copione, fa muovere da subito le teste dei metallari ora presenti sotto al palco. I suoni non sono il massimo, con le orchestrazioni che spesso rimangono troppo alte rispetto al resto degli strumenti e con i cori che difficilmente si riescono a sentire, ma a questo rimedieranno in parte i fan più incalliti della band classe 98, che senza timore lanciano le proprie grida verso Chris Bay e soci. Il cantante tedesco, anima del gruppo, dà il meglio di sè dimostrando grande carisma, nel muoversi dà l’idea di essere un ragazzino con molta passione e ancora tanta energia da condividere con gli altri, un vero piacere. La scaletta vede il susseguirsi di vari brani parecchio apprezzati dal pubblico, tra questi l’inno al metallo “Metal Is For Everyone” e la saltellante “Land of Light” che chiude il concerto. Successivamente resto nei paraggi dando un ascolto allo show dei Me And That Man di Nergal che però onestamente non mi coinvolge più di tanto, sebbene qualche spunto buono non manchi tra un brano e l’altro.
CATTLE DECAPITATION
Il vero piatto forte però è all’incirca alle 16, quando sull’Headbangers stage si ritorna a martellare musica di una certa carica assieme alla Death Metal band Cattle Decapitation, alla quale sinceramente non posso fare nessuna critica. La band è distruttiva e si muove come se fosse un carrarmato che lentamente (si fa per dire) distrugge ogni singola particella di vita sul suo cammino. Purtroppo non riesco a restare fino a fine concerto in quanto ad aspettarmi dall’altra parte del festival ci sono gli At The Gates, pronti a macinare il mainstage Faster.
AT THE GATES
Facendo una corsa degna del peggior velocista olimpionico, arrivo a destinazione giusto in tempo per vedere il Jackpot segnato dalla slot machine proiettata sul grande schermo, che ora segna il nome della Melodic Death Metal band svedese per eccellenza. I nostri, reduci di un cambio di lineup derivato dalle accuse lanciate contro l’ora ex chitarrista Jonas Stålhammar, salgono sul palco con un ospite davvero speciale con il quale pochi giorni prima hanno condiviso il palco del Gefle Metal Festival, ovvero Patrick Jensen dei The Haunted. Il backdrop presente sullo sfondo è un chiaro suggerimento di quello che vedremo eseguire dalla band di Goteborg, ovvero “Slaughter Of The Soul” nella sua interezza. La band si butta a capofitto nei ricordi di quegli elaborati riff melodici, ma stranamente sotto al palco non c’è troppo movimento. Sarà per l’orario, sarà per altro, ma tra il publico presente non c’è la dinamica che mi sarei aspettato di vedere. Vero anche, che sebbene la performance dei nostri sia come al solito perfetta, essi sembrano essere meno coinvolgenti rispetto allo show visto pochi giorni prima in Svezia al Gefle Metal Fest e anzi, la piccola interazione provata da Tompa con il pubblico (dove chiede quale sia il brano successivo a quello appena suonato) ottiene solo poche e timide risposte, il che fa in un certo senso sorridere la leggenda svedese, che annuncia poco dopo “Cold“. Lo show si chiude sulle note dell’unico brano “outsider” in una scaletta incentrata sul capolavoro del 1995, “The Night Eternal” tratto da “At War With Reality”.
HYPOCRISY
Senza cambiare totalmente genere mi sposto di pochi passi e arrivo a fronte dello stage Faster dove da lì a pochi minuti si sarebbero esibiti gli Hypocrisy capitanati dal solito carismatico Peter Tägtgren. Sarà “Worship“, titletrack dell’ultimo album in studio degli svedesi, ad aprire le danze di questo show che non partirà nel migliore dei modi per via della non eccellente calibrazione dei volumi, che purtroppo vede nei primi minuti di concerto le chitarre troppo basse rispetto agli altri strumenti onstage. Fortunatamente questa problematica verrà risolta abbastanza velocemente, il che ci permetterà di godere dello show della band svedese ora avvolta da quantità non indifferenti di fumo e luci bianche, che rendono la scenografia quasi celestiale. La scaletta offerta vedrà presenti tre brani dell’ultimo disco e diverse altre canzoni provenienti da gran parte della discografia della band, il tutto ovviamente scelto con grande criterio. Non mancheranno infatti brani cult come “Eraser“, “Adjusting the Sun“, “Fractured Millennium” e tanti altri che, insieme a un’eccellente performance da parte dei musicisti svedesi, renderanno questo show davvero coinvolgente. Non mancano ovviamente i voli dei crowd surfers ed i muri di polvere innalzati dai corridori nel pit spesso intenti a girare in circle pit di modeste dimensioni. Lo show si conclude con “Roswell 47“, proveniente dal capolavoro “Abducted”. Finito il set degli svedesi, decido di rilassarmi un po’ cercando di recuperare energia a sufficenza per poter affrontare l’ultima parte di quella che sulla carta sembra essere la giornata più faticosa del festival.
SLIPKNOT
Dopo una pausa dove mi sono ritrovato nuovamente a selezionare la mia cena tra i vari food truck, una breve seduta per controllare le foto scattate e un’intervista organizzata sul momento insieme a Niclas Engelin dei The Halo Effect, mi rialzo per avviarmi a quello che per molti è il concerto più atteso della serata, quello degli statunitensi Slipknot. Le luci di Wacken si spengono e dalle casse poste attorno all’area dei mainstages parte il classico degli AC/DC “For Those About to Rock (We Salute You)“, che anticipa l’entrata velata della band che con ancora il telone riportante il proprio logo a coprire il palcoscenico inizia il suo set con l’esecuzione di “Disasterpiece“. Come ci si poteva aspettare, i presenti iniziano a spingere per cercare di avvicinarsi al palco, poco importa quanta distanza ci sia fra esso e loro, l’obbiettivo è uno solo: vedere il più vicino possibile la prima apparizione in 31 anni di festival degli Slipknot al Wacken Open Air. La resa dei brani, già molto efficente grazie a un ottimo lavoro del fonico, viene ulteriormente steroidata dagli effetti scenici sul palco che comprendono esplosioni e lunghe code di fuoco, un classico per chi suona a Wacken, ma che riempie ulteriormente l’ottima scenografia già presente sul palco. Corey Taylor alla voce, d’altro canto, non si tira indietro dall’incitare e rendere il pubblico partecipe dando comunque molta importanza al fatto che la band, dopo 23 anni di carriera, sia finalmente sul palco tedesco più famoso d’europa; “I’ve been waiting my whole fucking life to say these words: Good Evening Wacken!“. I brani proseguono con grande impatto, penetrando con non poca potenza nei canali uditivi degli spettatori, che non si trattengono dal fare tutto ciò che uno show di questa portata chiede, e non si parla solo di circle pit e crowd surfers, ma anche di veri e propri fan che letteralmente cantano ogni singola nota di ogni singolo brano, fatta eccezione per il nuovo singolo “The Dying Song (Time to Sing)“, che è stato un po’ una rivelazione per molti dei presenti. Taylor non manca di smentire e specificare che il break up della band è solo un’allusione creata dai media (forse anche un po’ cercata dalla band dato il titolo “The End, So Far” ndr) e rassicura i fan del fatto che gli Slipknot non moriranno mai. Fino a qui lo show è stato riempito di classici e di qualche chicca, non potevano mancare all’appello brani come “Wait and Bleed“, “Before I Forget“, “Dead Memories” e ovviamente “Psychosocial“, che crea forse il più grande circle pit della serata. Il tempo scorre velocemente e senza accorgercene siamo già ben oltre la metà show quando la band chiede al pubblico di abbassarsi per saltare poi il più in alto possibile sulle note di “Spit It Out“, che viene proposta come un classico che manderà Wacken indietro nel tempo. L’encore era inevitabile, così dopo un’uscita di scena, i nostri tornano sul palco per “People = Shit“, che precede l’ultimo brano della serata, “Surfacing“, introdotta dalla richiesta del cantante di alzare il dito medio verso il palcoscenico, per introdurre “l’inno nazionale”; è puro caos, è polvere, è rabbia mista a una grandissima carica di energia, proprio come ci si poteva aspettare da questo show, che personalmente non ha minimamente deluso e anzi, è stato di gran lunga migliore rispetto alle aspettative che avevo, grazie a dei suoni perfetti e all’ottima performance di tutti i musicisti, che hanno dimostrato fino all’ultimo di avere un’instancabile appetito nel macinare il palco. Peccato solo che il tutto sia finito 20 minuti prima rispetto all’orario inizialmente scritto sul programma, ma non posso ugualmente dire di essere deluso. Lo show si chiude con i nostri a centro palco che si abbracciano e come da consuetudine lanciano ai fan più vicini plettri, bacchette e setlist; sicuramente i pochi fortunati in grado di acchiappare uno di questi cimeli difficilmente si dimenticheranno della serata odierna, che però non è ovviamente ancora finita perchè sul Faster ci sarà il primo show a Wacken (e il quarto show in generale) della nuova melodic death metal band svedese capitanata da Mikael Stanne (Dark Tranquillity, Grand Cadaver), oggi pronta ad esibirsi sul perstigioso stage davanti a molti fan del Gotenburg sound, ed a diversi curiosi accorsi.
THE HALO EFFECT
La storia del gruppo è semplice, i nostri sono tutti amici di vecchia data con la stessa passione per la musica e gli stessi gusti per creare qualcosa di non unico, in quanto definire unica la musica dei The Halo Effect sarebbe una blasfemia, ma è vero. I nostri cinque hanno tutti in qualche modo avuto a che fare con la contribuzione dell’allestimento e del miglioramento del sound svedese di Göteborg e il fatto che siano tutti ex membri degli In Flames la dice lunga. L’emozione è tanta, ma è la curiosità di vedere la band riunita che prevale su tutti gli altri sentimenti. L’entrata del gruppo è caldamente accolta dai fan sottostanti che, sebbene non siano presenti in gran numero (specialmente se messi a confronto dell’ultima band che ha suonato nell’area dei main stages), rappresentano un bell esercito; purtroppo sul palco non sarà presente il chitarrista e compositore Jesper Strömblad, ma Patrick Jensen (The Haunted), che abbiamo già visto poche ore fa insieme agli At The Gates (non una giornata semplice per il chitarrista svedese, ma sicuramente molto soddisfacente). I brani che si conoscono sono solo quattro, per il resto bisogna semplicemente ascoltare la musica e lasciarsi ammaliare dalle parole del frontman che, rievocando ricordi, si prende dopo quasi ogni canzone del tempo per parlare del passato dei vari ragazzi di Goteborg, per esempio di come egli pensasse che Niclas (allora nei Sacrilege) fosse uno dei migliori chitarristi al mondo, o di quanto lui e Jesper si ritrovavano a mangiare letteralmente le nuove uscite e i loro dischi preferiti, insomma, non esattamente uno show normale. La luce che prevale sul palco è del colore principale che ha accompagnato i The Halo Effect nel loro percorso per la creazione del primo album, il verde, e anche se alle volte risulta un po’ monotona, dà il suo effetto alla scena, illuminando i vari musicisti sul palco che danno l’idea di essere più che felici di suonare insieme come gruppo, quasi come fosse un sogno diventato reale. Purtroppo però non mancano i problemi sul palco, i suoni non sono da subito perfetti ed un problema tecnico costringe Patrik a uscire dal palco per quasi tutta l’esecuzione di “In Broken Trust“, facendolo fortunatamente tornare in scena verso fine brano. “The Last Of Our Kind” viene presentata come uno dei pezzi preferiti di Mikael, “Il prossimo brano è stato scritto da Jesper e la prima volta che l’ho sentita mi ha subito ricordato i nostri idoli e la nostra giovinezza“. Se non fosse ancora chiaro, lo show è molto sentimentale e fortunatamente riesce anche nell’intento di dare al pubblico qualcosa in più, che apprezza veramente tanto questo accompagnamento quasi narrato, come se fosse un libro. I nostri concludono lo show leggermente prima del previsto con dei ringraziamenti decisamente prolungati, Mikael Stanne si inchina al pubblico ed esce con
il suo sorriso suggestivo brandendo in mano un’immancabile birra aperta.
I The Halo Effect hanno sostenuto uno show particolare e di buon gusto ma sinceramente non all’altezza della chiusura del palco Faster, che personalmente sarebbe dovuta spettare ad una band con più materiale sulle spalle e magari con più live suonati; detto questo comunque è stato piacevole vedere la band capitanata da Stanne esibirsi al Wacken Open Air e, certo che questo show sarà solo uno dei tanti, mi avvio verso la tenda un po’ sconsolato dal fatto che l’ombra dell’ultima giornata sia veramente vicina.
