Wacken Open Air 2018: Live Report e foto del Day 1 con Judas Priest, Behemoth, Danzig e altri

Seconda giornata in terra tedesca, primo giorno ufficiale di festival, apertura dei tre palchi principali, il Faster, l’Harder e il Louder Stage. L’esibizione principale ci aspetta questa sera ed è quella che vede i Judas Priest come headliner, ma la giornata è lunga e gli spunti di interesse, come sempre, sono molti. Cominciamo quindi da un rapido passaggio sotto il tendone, dove infuria ancora la Metal Battle. La giornata inizia con i Die From Sorrow, rappresentanti della Cina, che poi vinceranno la competizione, meritatamente. Il loro death metal melodico con inserti progressive è di quelli che arrivano dritti al punto, ma l’efficacia della loro musica non sarebbe la stessa senza la lo tenuta di palco clamorosa, degna di una band di lungo corso, coinvolgente e accattivante anche per chi non conosce la band. la sensazione comunque è che sentiremo parlare ancora dei Die From Sorrow.

Seguono poi i Phenomy, rappresentanti del Libano, che invece propongono un thrash metal con inserti melodici, abbastanza rispondente ai canoni del genere, interessante ma dall’esibizione meno eclatante rispetto ad altri gruppi che abbiamo visto su questo stesso palco.

Ma la mattina trascorre in fretta, e arriva il momento dell’apertura delle porte dell’Infield, il campo principale, che questa volta, complice il bel tempo, rimane erboso più a lungo e offre la soddisfazione di potersi accomodare per terra, ogni tanto, senza rialzarsi tutti inzaccherati. Il primo gruppo ad esibirsi sull’Harder Stage (il palco centrale, quello più alto, dove le band suonano senza altre in contemporanea sui due palchi limitrofi) è come consuetudine quello degli Skyline, formazione composta dagli organizzatori del festival. Si tratta di una delle tante manifestazioni goliardiche tipiche del festival tedesco, meno eccessiva di tante altre, anzi sostanzialmente si tratta di una normalissima cover band che ha il compito di scaldare i motori. Tra una serie di classici come “Burn”, “Bark At The Moon”, “2 Minutes To Midnight” e “Ain’t Talkin’ About Love”, i primi 45 minuti scorrono via veloci, con una delle tante consuetudini di Wacken a garantire serenità e divertimento per tutti.

Quando Don Dokken annunciò il ritorno dei Dokken in formazione più o meno originale, fece capire più volte che i concerti si sarebbero svolti solo laddove la band fosse stata pagata a sufficienza. Ora, non vogliamo entrare nel merito del compenso, ma è vero che l’unico che sembra divertirsi davvero durante questo show è Mick Brown alla batteria. Jon Levin alla chitarra suona in modo eccellente, per quanto sarebbe stato bello rivedere la coppia d’oro Dokken/Lynch sullo stesso palco. Per quanto riguarda il frontman, c’è da dire che nonostante gli anni abbiano lasciato una sensibile traccia per quanto riguarda l’aspetto fisico, non c’è molto da eccepire per quanto riguarda la voce. Per fortuna, infatti, Don Dokken riesce a regalare una performance più che dignitosa, che manda in visibilio i presenti, soprattutto per via di un set che comprende un gran numero di estratti da “Tooth And Nail” e “Under Lock And Key”. Una serie di grandi classici come “Breaking The Chains”, “Into The Fire”, “Alone Again” e “In My Dreams” in chiusura di concerto lasciano una buona impressione in generale sul set della band. E’ ovvio che la reunion dei Dokken puzzi di soldi lontano un chilometro, ma perlomeno abbiamo assistito a uno show dignitoso e piacevole.

Le note di “For Those About To Rock (We Salute You)” e il tema di “Pulp Fiction” creano la giusta atmosfera per l’ingresso in scena di Vince Neil. La prima cosa che viene in mente è lanciarsi in una serie di battutacce cattive sull’aspetto fisico dell’ex frontman dei Motley Crue: insomma, il povero Vince Neil è tremendamente sovrappeso, anche se impiega la quasi totalità dell’ora a sua disposizione ballonzolando di qua e di là dal palco e dimenandosi al massimo neanche si stesse sottoponendo a una sessione di aerobica intensiva. Per fortuna la band che lo accompagna è altrettanto dinamica e un po’ più credibile, perché, a differenza di Don Dokken, Vince Neil ha perso buona parte della sua estensione vocale e inizia ad arrancare già pochi pezzi dopo l’inizio del set. Peccato, perché il pubblico sempre variegato di Wacken accoglie con piacere grandi classici dei Crue come “Home Sweet Home”, “Shout At The Devil”, “Same Ol’ Situation”, “Kickstart My Heart”, “Girls Girls Girls” e così via. La cover di “Whola Lotta Love” si sarebbe potuta benissimo evitare, ma pazienza. Vince Neil ci prova ancora, e a qualcuno sarà sicuramente piaciuto.

Udo Dirkschneider aveva promesso che non avrebbe più fatto concerti con il repertorio degli Accept. Poi è tornato sui suoi passi e ora, sempre sotto il nome di Dirkschneider, si gioca il tutto per tutto con questo tour, nel quale esegue di nuovo, stavolta giura per l’ultima volta, solo brani degli Accept. Udo è sempre il solito: basso, nervoso, in perenne movimento, ringhia nel microfono senza sosta, accompagnato da una band valida e dinamica. I fan degli Accept, e i tedeschi in particolare, hanno di che divertirsi ascoltando di nuovo brani come “Princess Of The Dawn”, “Restless And Wild”, “Midnight Mover” e le immancabili “Metal Heart”, “Fast As A Shark” e “Balls To The Wall”. Udo non è mai stato un virtuoso della voce, e non è certo questa la sua intenzione, ma ha sempre portato avanti con coerenza il proprio percorso musicale, e questo live nella sua madre patria raccoglie consensi e conferme per quanto lo riguarda.

Siamo ancora in pieno pomeriggio, il sole è appena impallidito, ma sull’Harder Stage l’atmosfera diventa più cupa e si ammanta di ombre. È il momento dei Behemoth, un’altra band che torna a Wacken dopo qualche anno di assenza, e considerato che il loro nuovo album non è ancora stato pubblicato, il lungo set, un’ora e un quarto nel suo complesso, riprende alcuni estratti da “The Satanist” e da lavori ancora precedenti. Nonostante la discografia della band polacca non abbia ancora aggiunto un nuovo tassello al mosaico, Nergal e compagni fanno comunque un regalo importante ai loro fan. Si tratta del brano dal titolo più che emblematico “God = Dog”, che farà parte del nuovo album della band e che viene eseguita dal vivo per la prima volta proprio in questo contesto. Il pubblico ascolta con attenzione e sembra apprezzare in pieno anche questo nuovo singolo, ma riserva un’accoglienza altrettanto calorosa anche ad altri pezzi, come “Blow Your Trumpets Gabriel”, “Messe Noire” o le meno recenti “Decade Of Therion”, “Slaves Shall Serve” e “Chant For Ezkaton 2000”. In una giornata che ha visto alternarsi vecchie glorie dell’hair metal, una tale variazione di stile potrebbe lasciare spiazzati, ma una delle cose positive di Wacken è proprio questa grande capacità del pubblico di sapersi adattare ad ogni genere proposto.

C’è un grande teschio nero stilizzato come scenografia dietro Glenn Danzig, e basta, ma questo è già sufficiente a creare la giusta atmosfera. I Danzig mancavano dai palchi di Wacken dal 2013, e anche questa volta la loro esibizione si conferma come una di quelle che non hanno bisogno di scenografie o decorazioni particolari, semplicemente ti si imprimono nella mente e restano lì. I Danzig sono una di quelle band “trasversali” che piacciono a tutti, specialmente con una setlist incentrata per la maggior parte su un repertorio estratto dai primi tre album della band. pochissimo spazio al recente “Black Laden Crown”, uscito l’anno scorso; per il resto è tutto un susseguirsi di brani storici, che spaziano da “Twist Of Cain” a “”Am I Demon”, da “Not Of This World” a “Tired Of Being Alive”, con quel miscuglio fra brani heavy metal e attitudine punk che costituiscono l’unicità dei concerti dei Danzig.

Non c’è tempo per riposarsi, è ancora presto per essere stanchi, è il momento dei Judas Priest. Il fulcro della serata del giovedì è tutto qui, in questa ora e mezza in cui i padri della NWOBHM portano a casa l’ennesimo centro perfetto. La calca di pubblico sotto il palco è veramente notevole, ma anche stando un po’ a distanza approfittando del famoso tappeto erboso ancora funzionante si gode appieno di questo live intenso. Rob Halford è in splendida forma, e da una parte i brani estratti dal recente “Firepower”, così come le vecchie glorie intramontabili, si mescolano senza nessun problema. La setlist di questo tour era stata resa nota da diverso tempo, per cui non ci sono particolari sorprese, ma il fatto di risentire dal vivo brani come “Sinner” o “The Ripper”, accostate a estratti più recenti come la title track “Firepower” e a classici intramontabili come “You’ve Got Another Thing Comin’” crea un mix tra passato e presente al tempo stesso solido, rassicurante e commovente. Non si poteva immaginare un modo migliore per chiudere anche questa giornata, con la quale il festival è sì entrato nel vivo, ma ci riserverà ancora molte sorprese.

anna.minguzzi

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E' mancina e proviene da una famiglia a maggioranza di mancini. Ha scritto le sue prime recensioni a dodici anni durante un interminabile viaggio in treno e da allora non ha quasi mai smesso. Quando non scrive o non fa fotografie legge, va al cinema, canta, va in bicicletta, guarda telefilm, mangia Pringles, beve the e di tanto in tanto dorme. Adora i Dream Theater, anche se a volte ne parla male.

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