Dopo il successo del loro secondo album “Hyperdaze”, uscito nel 2019 e seguito da un 2020 in cui tutti i piani di portarlo su più palchi possibili sono svaniti nella nube di un virus, i Void Of Vision calcano la mano rilasciando “Hyperdaze Redux”, una versione re-immaginata del lavoro sopracitato. Uscito per UNFD, un etichetta che personalmente amo alla follia essendo cresciuto con atti come In Hearts Wake, Silent Planet, Northlane e Stray From The Path, giusto per nominarne alcuni, il disco era inizialmente pianificato come una composizione formata puramente da remix, scuola Suicide Season: Cut Up! Dei Bring Me The Horizon, per poi evolversi in un progetto fatto di collaborazioni e qualche svecchiata alla parte elettronica dell’album. Per chi fosse già famigliare con il lavoro originale, la versione Redux funziona come una seconda mano di vernice che da ancora più colore e personalità ad un disco che, già in partenza, aveva molto da dire alla scena metalcore mondiale.
Per chi invece si approccia alla proposta artistica della band per la prima volta: i Void Of Vision sono un quartetto aggressivo proveniente da Melbourne, Australia. Attivi dal 2013, hanno abbracciato a pieno la corrente “djent” che stava prendendo piede in quegli anni, abbassando l’accordatura ai chitarroni distorti di James McKendrick e Mitch Fairlie per alimentare le ritmiche serrate ma caotiche di George Murphy alla batteria, facendo da tappeto alle sfuriate, a livello lirico e di esecuzione, che il frontman Jack Bergin grida contro a chi lo ascolta. È proprio Bergin stesso ad aver architettato in lockdown la realizzazione di questo gemello di Hyperdaze, tirando in causa 8 vocalists diversi per complementare le 10 tracce che compongono il disco, ora che il vecchio intro Overture è stato fuso in modo particolarmente intelligente con la opening Year Of The Rat, che sui ritornelli si presta alla fantastica voce di Jacob Charlton dei Thornhill, altra formazione di casa UNFD che merita veramente molto. Il pezzo da ai neofiti un assaggio di tutta la cattiveria sonora che i Void Of Vision hanno compresso in 34 minuti di caos, con un guitar work decisamente in linea con gli standard del genere, ormai dipendente dallo stile di riffing coniato dagli Architects di “All Our Gods…” ed “Holy Hell”, ma allo stesso tempo molto originale e caratteristico per la scelta di intervalli e di sequenze negli accordi, con qualche fraseggio davvero di buon gusto (come verso il finale di If Only) a mettere la ciliegina sulla torta ed un muro di synths alle spalle che forma un ambiente catartico ma in qualche modo familiare all’ascoltatore.
Prossima nella tracklist è la violenta Babylon, appesantita dai growls rabbiosi di Boback Rafiee (Justice Of The Damned), seguita dalla precedentemente accennata If Only, uno crescendo di rabbia che si apre con il passare dei secondi in quello che è uno dei pezzi più melodici del disco, nonché uno dei miei preferiti. La traccia ospita al suo interno Lucas Woodland, voce degli Holding Absence. La successiva Slave To The Name, che come invitato speciale vanta Jamie Hails, anima dei Polaris, altra band per cui ammetto di stravedere, accompagna l’ascoltatore alla traccia che spacca il disco a metà: Adrenaline, remixata dal suo creatore originale, Jon Deiley dei Northlane. Quello che nell’album gemello era solo poco più di un minuto di elettronica a fare da interludio, qui viene re-inventato come un pezzo edm dall’atmosfera molto cupa che ne dura quasi quattro, forse un po’ troppi, ma che colpisce per quanto suoni in linea con il resto del progetto, nonostante il salto di genere, risultando uno dei momenti più originali del disco, ma allo stesso tempo uno dei più facilmente dimenticabili. Hole in Me ritorna al nichilistico core dei quattro, con uno dei feature di maggior rilievo di tutto il disco, Kenta Koie di casa Crossfaith. Kerosene Dream (con Garrett Russell degli immensi Silent Planet) apre le porte a Decay, la collaborazione più riuscita secondo me, che mette in contrasto alla voce di Bergin quella di Ecca Vandal, unica guest femminile nell’album, che ha la capacità di rigirare l’intera atmosfera di quello che era uno dei pezzi più apprezzati nel catalogo della band, dandogli completamente un’altra faccia ma senza snaturarne minimamente la cattiveria (la piccola linea vocale sul breakdown è un tocco davvero di classe).
A precedere il chiudi fila ci pensa Splinter, uno dei momenti più pesanti del progetto che ci regala in veste di guest Kadeem France, frontman dei Loathe, band che sta facendo sua l’intera scena metalcore corrente con piccole perle come “I Let It In And It Took Everything”. Chiude il sipario, infine, la title track Hyperdaze, la traccia che ha subito maggiori cambiamenti in tutto questo piccolo esperimento. Se c’è una canzone in tutto il lavoro che richiama alla mente il delirio artistico dei Bring Me The Horizon nella versione Cut Up! di Suicide Season, nel 2009, è proprio questa. Un pieno remix elettronico/metal con in aggiunta nuovi versi rap, il pezzo ha perso quello che era uno dei riff più belli dell’originale Hyperdaze, ma ha fatto guadagnare una chiusura particolare e risolutiva ad un disco che è stato un bel rischio artistico per una band così giovane, ma che allo stesso tempo ha sottolineato quanto è creativo e soprattutto talentuoso lo stato attuale della scena metalcore.
Non tutto ha giovato dell’operazione restauro però, in quanto il disco ha perso in fase mastering un po’ della dinamica che un tempo aveva, scelta che appesantisce l’ascolto non di poco, e che personalmente lo ha reso un filo meno apprezzabile. Ciò nonostante, Hyperdaze Redux è stato un progetto al 100% riuscito, che ha dato nuova vita ad una perla già molto apprezzata sia nel panorama musicale mondiale, che più intimamente dal sottoscritto. Ogni guest ha portato il suo bagaglio di esperienze duettando con la voce già eccellente di Jack e dando vita all’ennesimo esempio di quanto il metalcore sia maturato meritandosi un posticino anche nelle playlist dei più dubbiosi.