Tygers Of Pan Tang – Recensione: Bloodlines

Si potrebbe scrivere un libro sulla storia dei Tygers Of Pan Tang: una storia che, fin dai primi vagiti della New Wave Of British Heavy Metal (NWOBHM), ha visto alcuni membri della storica band cercare – e trovare – fortuna altrove, ed altri rimanere a difesa del nome, del sogno e della tradizione. Che poi, se lo sono chiesti in tanti, il vero coraggioso è chi resta o chi fugge? Comunque la si voglia pensare, Robb Weir, Craig Ellis e Jacopo “Jack” Meille (General Stratocuster and The Marshals e Norge, la tribute band dei Led Zeppelin) non solo hanno scelto di restare, ma negli anni hanno saputo ricostruire attorno a sè una line-up che appare oggi tra le più compatte che siano mai state in forza alla band di origini inglesi. Assorbiti definitivamente Francesco Marras alle chitarre e Huw Holding al basso, i cinque si sono affidati al tocco sapiente del produttore danese Tue Madsen (The Haunted, Moonspell, Sick Of It All) alla ricerca di un suono ancora più robusto e contemporaneo, e che potesse mettere in condizione queste dieci nuove tracce di esprimere tutto il loro metallico potenziale.

Bloodlines” è dunque la tredicesima tappa – se limitiamo il conteggio ai full-lenght realizzati in studio – di un percorso che ha visto il gruppo formato da Weir maggiormente attivo negli anni successivi alla sua creazione, salvo poi riprendere con regolarità le pubblicazioni (mediamente tre album ogni dieci anni) a partire dal nuovo millennio ed a seguito di un silenzio discografico di quasi quindici anni. Tempistiche dilatate che hanno permesso una maturazione del sound ed una consapevolezza dei propri obiettivi che, quando si ascoltano artisti come questi, traspare con immediata facilità. Disponibile anche in due diverse edizioni in vinile, “Bloodlines” si apre con le note atmosferiche di “Edge Of The World”, un primo episodio dal sapore pesante e classico che fonde molto bene le proprie melodie di stampo heavy con il drumming moderno e brillante di Ellis. La voce del fiorentino Meille è meno graffiante e forse più effettata del solito, con le chitarre spagnoleggianti poste a metà del brano che fanno di questa prima traccia un esordio carico di energia, melodia moderna e colore. Da questo momento in poi, ogni brano sembra voler riservare una piccola sorpresa, pescando creativamente dai mille punti di riferimento che una band nata nel 1978 può permettersi di prendere in considerazione: “In My Blood” ricorre ad esempio all’uso del talk box, “Fire On The Horizon” spinge decisa sull’acceleratore e “Back For Good” risveglia l’anima classic della band omaggiando un po’ stancamente i Led Zeppelin, mentre in nessun caso si rinuncia alla decorazione barocca offerta da un bell’assolo di chitarra o al coinvolgimento che un ritornello ben confezionato può continuare a regalare.

Se un appunto si può muovere a “Bloodlines”, questo è forse quello di procedere a fiammate, offrendo soluzioni certamente d’impatto ma che a volte sembrano – e suonano – un po’ slegate dal contesto dell’album. Nonostante infatti la rigenerante freschezza dei suoni e la varietà delle soluzioni ricercate, questo tredicesimo disco manca di presa sui suoi stessi contenuti, con una esuberanza stilistica che a lungo andare diventa leggermente forzata e pensata più per dimostrare, che non per divertire. La sensazione è acuita dal fatto che, nonostante canzoni e ritornelli scorrano con tutta la fluidità della quale i Tygers Of Pan Tang sono naturalmente capaci, alcuni brani mancano di personalità (“Light Of Hope” e “Believe” sarebbero onestamente anche un po’ bruttine) e l’aspetto citazionistico prende troppo il sopravvento (“Kiss The Sky” è derivativa e già sentita, già a partire dal titolo), una mancanza che – specialmente quando la avverti fin dalle prime battute – ti porta a ripensare le priorità che devono aver guidato i cinque nella realizzazione di questo nuovo lavoro.

Bloodlines” è un prodotto realizzato ottimamente, confezionato con cura e consapevolezza, infarcito di contributi differenti che ne fanno consigliare senza esitazioni un primo ascolto. Se però si dovesse valutare la longevità effettiva di queste tracce, e dell’opera/album che dovrebbe presentarle in un modo armonico e coerente, il discorso potrebbe farsi più articolato e gli esiti meno scoppiettanti: se infatti questa formazione ha ancora tanto da dare e da suonare, soprattutto se gustata dal vivo, la discontinuità di questo album, il suo finale molto dimesso e la forzatura della quale molti dei suoi passaggi soffrono (compresa una ballad piuttosto incolore come “Taste Of Love”) dimostrano che, dal punto di vista del songwriting e dell’alchimia in studio tra vecchi e nuovi membri, si può e si deve fare di più. E, come si dice sui social, da “Bloodlines” alla ben più elettrizzante “White Lines” (“Ritual”, 2019) è un attimo.

Marco Soprani

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Folgorato in tenera età dalle note ruvide di Rock'n'Roll dei Motorhead (1987), Marco ama fare & imparare: batterista/compositore di incompresa grandezza ed efficace comunicatore, ha venduto case, lavorato in un sindacato, scritto dialoghi per una skill di cucina e preso una laurea. Sfuggente ed allo stesso tempo bisognoso di attenzioni come certi gatti, è un romagnolo-aspirante-scandinavo appassionato di storytelling, efficienza ed interfacce, assai determinato a non decidere mai - nemmeno se privato delle sue collezioni di videogiochi e cuffie HiFi - cosa farà da grande.

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