Top 20 – I Migliori Album Prog dal 1991 al 1993 – Parte 1

Parlare di “progressive” per gli anni a cui fa riferimento questa prima parte di speciale è effettivamente un tema un po’ “tirato per i capelli” però, oltre al piacere di farvi riscoprire o semplicemente ricordare alcuni validissimi album che hanno resistito al passare del tempo, si vuole sottolineare come proprio tra il 1991 ed il 1993 iniziò a svilupparsi una certa interessante commistione tra rock progressivo (anche se ai puristi verrà l’orticaria) e mondo metal che andrà a catalogare molti futuri lavori in un nuovo sottogenere denominato prog metal (che purtroppo includerà anche album che con questo spirito innovativo poco o nulla avranno a che vedere). Analizziamo i primi 12… buon viaggio (Alberto Capettini).


conception the last sunsetCONCEPTION – THE LAST SUNSET

(Noise Records, 1991)

Strano destino quello dei Conception, partiti in quarta con un disco come questo, pubblicato fra l’altro in un momento in cui il prog metal stava iniziando a muovere i primi passi in autonomia, e poi incapaci di sopravvivere agli anni ’90. Oltre ad averci permesso di conoscere per primi le grandissime doti vocali di Roy Khan (poi in forza nei Kamelot), la nostalgia latente per una band come questa, capace di coniugare fin da subito suoni heavy con cambi di tempo e inserti in acustico di grande effetto, è ancora adesso molto forte. “The Last Sunset” è un disco d’esordio strepitoso, fresco e originale, e pezzi come “Bowed Down With Sorrow”, con i suoi crescendo, i suoi cori angelici sostenuti da un riff di chitarra pesante e attualissimo, hanno davvero lasciato il segno. Ci sono ancora dei riferimenti al sound degli anni ’80, ad esempio nelle tastiere che accompagnano l’apertura di “Fairy’s Dance”, subito stemperate però da una ritmica serrata e una serie di cori che anticipano un po’ quello che avrebbero fatto i Savatage poco tempo dopo. I Conception restano comunque un’occasione sprecata e una fonte di nostalgia per i fan del prog metal (Anna Minguzzi).


Fates-Warning-Parallels_albumFATES WARNING – PARALLELS

(Metal Blade, 1991)

I Fates Warning approcciano direttamente il progressive con questo “Parallels” datato 1991, un disco che gravita attorno alle performance di Ray Alder (voce), Jim Matheos (chitarra) e Mark Zonder (batteria), con l’apporto tutt’altro che irrilevante di Frank Aresti (chitarra) e Joe Dibiase (basso). “The Eleventh Hour” è emblematica del nuovo corso preso dal gruppo, “Life In Still Water” è aggressiva e graffiante, la ritmica in “Point Of View” sazia le orecchie e non è in secondo piano rispetto al resto. Otto pezzi che dall’iniziale “Leave The Past Behind”, quasi un manifesto programmatico fin dal titolo, alla finale “The Road Goes On Forever” tessono le trame di un album magico, di sicuro non il migliore della carriera del gruppo ma certamente un passo in avanti verso i lidi progressive che caratterizzeranno la loro opera futura. (Fabio Meschiari)


magellan impending-ascensionMAGELLAN – IMPENDING ASCENSION

(Magna Carta, 1993)

Un secondo album che è una cornucopia di progressive, in bilico fra il vecchio e il nuovo: “Impending Ascension” dei Magellan segue l’esordio “Hour Of Restoration” e si prodiga in funamboliche sequenze melodiche ad opera dei fratelli Gardner, H. Imbrie e una batteria elettronica (a parte in “Waterfront Weirdos”).Pezzi generalmente lunghi (tre su sette superano i dieci minuti) e ricchi di suoni,che superano qualche caduta di stile presente invece nel disco precedente: “Estadium Nacional” stordisce, seguendo il vento di correnti ascensionali musicali disparate, “No Time for Words” è uno strumentale raffinatissimo e “Songsmith” dimostra che i Magellan sanno destreggiarsi bene anche quando il funky si ibrida con l’hard rock. Un lavoro vario ed eccezionale, consigliato ancora a distanza di anni. (Fabio Meschiari)


mystic force the eternal questMYSTIC FORCE –  THE ETERNAL QUEST

(Rising Sun, 1993)

I Mystic Force furono una meteora sconosciuta ai più nel panorama metal più tecnico degli anni ’90. Ruotando attorno a musicisti di altissimo livello, tra cui lo scomparso e dotatissimo cantante Bobby Hicks (di scuola Carl Albert tanto per capirci), gli americani riuscivano ad inglobare un’elevata perizia strumentale (soprattutto il chitarrista Rich Davis ed il batterista Chris Lembach oggi coinvolti negli ancor meno conosciuti Shift) in trame prettamente metal andando a scomodare riferimenti a Fates Warning, Queensrÿche e Iron Maiden. I pezzi da ricordare per questo esordio, molti dei quali provenienti da un discreto numero di EP realizzati in precedenza sono: “Shipwrecked With The Wicked”, “Temples Of Exile”, “Vicious Obsessions” e la conclusiva “Eternal Quest”. La band pubblicherà solo tre album tra i quali il terzo, introvabile, “Man Vs. Machine” con William Wren degli Oracle (anche noti come Prodigy) alla voce. (Alberto Capettini)


PORCUPINE TREE – UP THE DOWNSTAIR

(Kscope, 1993)

porcupinr tree - up the downstairSecondo album per la creatura del folletto Steven Wilson: quando psichedelia, sogno e hard rock si incontrano creano un mix strano e coinvolgente, onirico al punto giusto, come quello contenuto in questo “Up The Downstair”. La title track, coi suoi dieci minuti di oscuro lirismo, convince appieno così come “Burning Sky”, simile alla canzone citata in precedenza per quanto riguarda la durata, vive su un riff in loop: la chitarra, a pensarci bene, è un po’ il filo rosso che attraversa queste canzoni e le sottolinea (vedi “Small Fish”). Da qui probabilmente si riesce già a vedere in embrione la splendida creatura che diventerà l’albero del porcospino, quindi un lavoro fra i fondamentali per capire lo sviluppo del gruppo dell’occhialuto Wilson e del genere progressive rock modernamente inteso, pennellato di psichedelia e ornato di momenti dark. (Fabio Meschiari)


Psychotic Waltz - INTO THE EVERFLOWPSYCHOTIC WALTZ – INTO THE EVERFLOW

(Metal Blade, 1992)

Gli Psychotic Waltz sono in assoluto tra i padrini del genere progressive metal, ma nella loro musica convivono anime tanto diverse quanto ben miscelate, utilizzate per creare uno stile del tutto unico e quindi poco imitabile (e forse per questo meno capace di influenzare altri musicisti). “Into The Everflow” è per molti il loro capolavoro ed in effetti l’abilità con cui Mr. Buddy Lackey (poi Devon Graves) e soci preparano la loro particolare ricetta ha qui qualcosa di assolutamente magico. Ci sono psichedelia, vecchio prog e dissonanze hard dal gusto del tutto moderno per l’epoca, ma anche riff metal portati con una pesantezza inconsueta per il genere e un’anima dark che non manca di farsi sentire. Ogni cosa pare muoversi su binari al confine della follia, senza però mai deragliare e diventare confusione. Ascoltare per intero questo disco è ancora oggi un’esperienza emozionante, così come seguire le evoluzioni armoniche della voce di Lackey o l’incessante lavoro di ogni strumento. Anche nei momenti più rilassati e accompagnati da chitarra acustica la tensione è palpabile e proprio questa abilità di non allentare mai la presa è il punto centrale dell’espressività ipnotica della band. Superbo. (Riccardo Manazza).


rush ROLL-THE-BONESRUSH – ROLL THE BONES

(Atlantic, 1991)

Suoni un po’ più caldi rispetto agli album prodotti nella seconda metà degli anni ’80, resi tangibili già dall’immortale melodia di “Dreamline”, “Roll The Bones” fece riassaporare ai Rush il successo planetario grazie ad un gruppetto di canzoni varie ma anche dannatamente commerciali. L’intramontabile title track ha un andamento funky dai contrappunti tastieristici, con la chitarra di Alex Lifeson finalmente tornata protagonista (risentitevi anche l’assolo di “Ghost Of A Chance”) nonché una parte centrale “rappata” perfettamente inserita nel contesto compositivo; “Where’s My Thing?” prosegue la grande tradizione degli strumentali della band di Willowdale mentre “Face Up” è tutto sommato semplice ma sospinta dal solito drumming extraordinaire di Neil Peart. Per chi scrive, i Rush hanno fatto meglio prima (e non scopro l’acqua calda) ma anche dopo questo lavoro, però è innegabile l’importanza di “Roll The Bones” nella transizione tra seconda e terza fase della carriera dei canadesi. (Alberto Capettini)


sieges even - a sense of changeSIEGES EVEN – A SENSE OF CHANGE

(Steamhammer, 1991)

Al terzo disco ormai si era capito che dai Sieges Even era possibile aspettarsi di tutto. Tanto che la sorpresa di sentire una band partita vicina al techno-thrash arrivare in prossimità del vero e proprio progressive rock con questo “A Sense Of Change” non fu poi così forte. Di certo l’arrivo alla corte dei fratelli Holzwarth di una cantante dal timbro meno acuto e più adatto a certe sonorità come Jogi Kaiser favorì tale percorso. Viene così alla luce in modo più evidente l’influenza di una band come Rush (con alcuni momenti che sfiorano la citazione), ma anche un retaggio vicino alla musica classica. La personalità della band è comunque forte e capace di portarsi dietro la propria particolare musicalità, radicata sia nella favolosa dinamica della base ritmica che nel gusto armonico della chitarra di Markus Steffen (ascoltate assolutamente oggi i suoi Subsignal). Come è giusto che sia in un disco di questa complessità ci sono molti ingredienti e tante sfumature, ma l’abilità di comporre musica multiforme mantenendo una linea melodica rintracciabile e accessibile rimane un dono per pochi. I Sieges Even erano tra questi (Riccardo Manazza).


threshold wounded landTHRESHOLD – WOUNDED LAND

(G.E.P., 1993)

L’esordio dei Threshold contribuì alla riscoperta delle sonorità prog in Europa tramite un’allora nuova commistione con chitarre metal che stava prendendo piega nei primi anni ’90. La particolare voce di Damian Wilson (sentitevelo in “Mother Earth”) rimarrà un tratto distintivo dei nostri fino ad oggi; certo Karl Groom e Richard West hanno saputo camminare con le proprie gambe perché il carismatico singer abbandonerà la band per un periodo abbastanza lungo però un interprete del genere non si trova con molta facilità. La cangiante “Consume To Live” presenta tutte le caratteristiche dei Threshold: voce potenze, riffing metal e tastiere alla Rick Wakeman sempre presenti… peccato per la produzione, forse la peggiore che gli inglesi hanno avuto in carriera (ad esempio “assaporate” l’artefatto suono della batteria di Tony Grinham). “Paradox” con il suo mitico giro di tastiera è stata per anni la chiusura dei concerti dei nostri, sorta di singolo ma con una struttura non banale. (Alberto Capettini)


Wratchild America - 3dWRATCHILD AMERICA – 3-D

(Atlantic Records, 1991)

Partiti da una solida base speed-thrash i Wrathchild d’oltreoceano (da non confondere con quelli britannici) stupiscono tutti confezionando un secondo lavoro che incorpora influenze così diverse tra loro da guadagnarsi una posizione in questa classifica. Se infatti non è probabilmente possibile inserire un disco come “3-D” completamente nel genere prog-metal, rimane quella l’attitudine messa in mostra da una band che si muove lontano da tutti i cliché del periodo e abbatte i confini del genere. Ritmiche di derivazione funky incastrate in tempi sincopati e linee vocali non certamente lineari si miscelano con assoli veloci e di scuola techno-thrash, mentre alcune parti più melodiche arrivano anche vicino al crossover di scuola americana. In dodici canzoni i Wrathchild ci infilano un po’ di tutto, con una visione però già matura e quindi capace di concretizzare gli schemi a volte astrusi in canzoni comunque lontane dal no-sense e del tutto originali. Tanto da essere perfettamente godibili anche oggi (Riccardo Manazza).


yes union coverYES – UNION

(Arista Records, 1991)

La dimostrazione di come “Union” sia stato comunque un momento importante nella sterminata carriera discografica degli Yes sta nel fatto che, vent’anni dopo la sua uscita, la band ha pubblicato anche “Union Live”, registrazione di un concerto tenuto nel 1991 a supporto, appunto di questa uscita. Questo nonostante, anche a distanza di tempo, i singoli membri della band abbiano espresso il loro disappunto per, a parer loro, una serie di problemi legati alla produzione dei pezzi, che forse, in effetti, è un po’ troppo “pop” per lo stile degli Yes, ma che a conti fatti risulta comunque molto gradevole. Un vero e proprio stuolo di musicisti hanno preso parte all’album, che non è altro se non la fusione di due band, gli Yes, appunto, e un supergruppo di cui facevano parte Rick Wakeman, Steve Howe e Jon Anderson. Impossibile che il risultato, con una concentrazione simile di menti geniali (ne faranno parte otto musicisti “ufficiali” e moltissimi altri ospiti, fra cui Tony Levin) e personalità diverse, non diventasse qualcosa di straordinario e “corale”. Dovendo scegliere fra questa grande varietà di brani, si ricordano fra le tante la strumentale “Masquerade”, in cui Steve Howe concentra il meglio di se stesso in due minuti di musica, e la corale “Lift Me Up”, con i suoi messaggi positivi e i suoni puliti (Anna Minguzzi).


royal hunt - land-of-broken-heartsROYAL HUNT – LAND OF BROKEN HEARTS

(Rondel Records, 1992)

Andre Andersen è una presenza torreggiante, e non solo nel senso della sua statura, ma anche nella capacità che ha avuto da sempre di accentrare su di sè buona parte del sound dei Royal Hunt, pur senza essere un tirannico despota. I Royal Hunt esordiscono a inizio anni ’90 con un album che ha già una serie di ottime frecce al proprio arco, alcune delle quali troveranno poi un’espressione ancora più completa nell’eccellente doppio live “1996“. “Land Of Broken Hearts” è un disco dal suono ancora molto scandinavo, che diventerà più internazionale con l’ingresso alla voce di D.C. Cooper, in cui le tastiere hanno un ruolo fondamentale, per non dire preponderante, e in cui le orchestrazioni e i complessi intrecci corali, che diventeranno un tratto tipico della band, si alternano ancora a ritornelli più semplici (ad esempio proprio quello della title track) e vicini alla matrice del rock melodico del Nord Europa. Henrik Brockmann alla voce fa comunque un buon lavoro e spiana la strada per quello che diventerà un periodo di grande attività per la band e che confluirà, verso la fine del decennio, nel capolavoro “Paradox” (Anna Minguzzi).

anna.minguzzi

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E' mancina e proviene da una famiglia a maggioranza di mancini. Ha scritto le sue prime recensioni a dodici anni durante un interminabile viaggio in treno e da allora non ha quasi mai smesso. Quando non scrive o non fa fotografie legge, va al cinema, canta, va in bicicletta, guarda telefilm, mangia Pringles, beve the e di tanto in tanto dorme. Adora i Dream Theater, anche se a volte ne parla male.

alberto.capettini

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Fan di rock pesante non esattamente di primo pelo, segue la scena sotto mentite spoglie (in realtà è un supereroe del sales department) dal lontano 1987; la quotidianità familiare e l’enogastronomia lo distraggono dalla sua dedizione quasi maniacale alla materia metal (dall’AOR al death). È uno dei “vecchi zii” della redazione ma l’entusiasmo rimane assolutamente immutato.

riccardo.manazza

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Incapace di vivere lontano dalla musica per più di qualche ora è il “vecchio” della compagnia. In redazione fin dal 2000 ha passato più o meno tutta la sua vita ad ascoltare metal, cominciando negli anni ottanta e scoprendo solo di recente di essere tanto fuori moda da essere definito old school. Il commento più comune alle sue idee musicali è “sei il solito metallaro del cxxxo”, ma d'altronde quando si nasce in piena notte durante una tempesta di fulmini, il destino appare segnato sin dai primi minuti di vita. Tra i quesiti esistenziali che lo affliggono i più comuni sono il chiedersi il perché le band che non sanno scrivere canzoni si ostinino ad autodefinirsi prog o avant-qualcosa, e il come sia possibile che non sia ancora stato creato un culto ufficiale dei Mercyful Fate.

Fabio Meschiari

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Musica e birra. Sempre. In spostamento perenne fra Asia e Italia, sempre ai concerti e con la birra in mano. Suonatore e suonato, sempre pronto per fare casino. Da Steven Wilson ai Carcass, dai Dream Theater ai Cradle of Filth, dai Cure ai Bad Religion. Il Meskio. Sono io.

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  1. Fabio Morales

    Finalmente qualcuno che si ricorda dei Magellan!

    Reply

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