Gli anni’80 erano termnati e anche il metal, dopo un periodo d’oro e una forte spinta commerciale tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa, si apprestava a vivere un periodo di declino, per lo meno fino alla rinascita successiva alla seconda metà del decennio. Da un lato il proliferare del grunge fu una buona risposta alle esigenze degli allora adolescenti della malinconica Generazione X (decisamente meno arrabbiati), dall’altro, il benessere e la prosperità economica portarono ad un edonismo crescente che si manifestò in quella marea di insulse boy/girl band pompate all’inverosimie dalla MTV più finta e luccicosa di sempre.
Ah, poveri noi rockettari ribelli! Ma il metal non era certo morto, solo messo da parte da un music business il cui unico interesse era quello di costruire fenomeni temporanei con lo scopo di vendere (eh già, a quei tempi non si scaricava mica niente!) e seppe riorganizzarsi molto bene. La “selezione naturale” imposta dall’industria musicale tranciò la gambe ai gruppi meteora creati ad hoc per sedurre i giovanotti della middle class (pop metal, hair metal, rap metal) e consentì ai più forti di andare avanti. Contemporaneamente, parecchie scene metal sorsero in numerose zone geografiche, spesso unendosi al sostrato culturale del luogo e contaminandosi con altri stili musicali, senza lasciarsene inglobare ma facendoli propri.
La divisione della scena in parecchi sottogeneri consentì una ventata di aria fresca, linfa vitale di questo universo espressivo che va avanti da cinque decenni a testa alta con un bacino di utenza più o meno ristretto ma fedele fino alla morte. Il 1990 fu per alcuni aspetti un anno zero. L’eredità del decennio appena trascorso era ancora ben tangibile ma già si percepiva la voglia di qualcosa di nuovo. Metallus.it ha selezionato per voi 20 dischi usciti nel 1990 che abbiamo deciso di rispolverare in occasione del loro venticinquesimo compleanno. Non abbiamo la pretesa di aver compilato la lista definitiva, siamo consapevoli che qualcuno possa mancare all’appello, ma abbiamo cercato di essere il più possibile esaustivi, sperando di aver steso un buon compendio sia per gli headbangers di vecchia data, sia per chi si è da poco avvicinato al genere e cercando di passare in rassegna le uscite più significative, sia in termini di contenuto che di apporto al genere hard’n’heavy.
Buona lettura con la prima parte dello speciale.
Alice In Chains – Facelift (Columbia Records)
Non storcete il naso, anche il grunge ha fatto parte della storia della musica degli anni ’90. E il sound di Seattle, così come lo intendevano gli Alice In Chains fu anche un bello schiaffo a quel metal machista e un po’ ignorante che imperversava negli Stati Uniti e nel quale molti giovani non si identificavano più. “Facelift” è nichilismo e desolazione, richiamate simbolicamente dalla copertina del disco, da liriche arrendevoli ma piene di rabbia e dignità. Un disco costruito dall’asse chitarra/voce dove Jerry Cantrell e Layne Staley sono i protagonisti, capaci di andare a recuperare parte del sound hard’n’heavy degli eighties e incupirlo con la malinconia del grunge. Certo non mancano momenti di puro e coinvolgente rock orecchiabile (“The Real Thing”), ma è nella rabbia di “We Die Young” e nella disperazione dell’emozionante “Love, Hate, Love”, dove l’album trova i suoi momenti migliori. (Andrea SacchI)
Annihilator – Never, Neverland (Roadrunner Records)
E’ il 1990 e la creatura del poliedrico Jeff Waters si affaccia sulle scene col secondo album, quel “Never, Neverland” che ha avuto l’unica sfortuna di uscire nello steso anno di altre gemme che ne hanno un po’ oscurato il valore di fronte al grande pubblico. Ma chi adora la musica rabbiosa e suonata in maniera tecnica e col cuore sa che questo CD è una cornucopia di brani meravigliosi: dall’opener “The Fun Palace” al pezzo di chiusura “I Am In Command” il guitar hero, affiancato dal singer extraordinaire Coburn Pharr (dal timbro robusto e cattivo al punto giusto), David Scott Davis, Wayne Darley e Ray Hartmann, riesce a sciorinare tutto il suo repertorio di fraseggi ed estro tecnico. “Kraf Dinner” , “Imperiled Eyes” (una creatura che si evolve di sua spontanea volontà) viaggiano in bilico fra il progressive cattivo e il thrash tecnico più sublime e ci regalano questo diamante nero, rarissimo e preziosissimo, sottovalutato da molti ma stimato dai conoscitori della materia metallica come opera di assoluto valore. (Fabio Meschiari)
Bathory – Hammerheart (Noise Records)
Il precedente “Blood Fire Death” aveva gettato le basi per qualcosa di immenso, una pesante eredità che “Hammerheart” raccoglie e sviluppa ancora meglio. Smesso il furibondo black/thrash degli esordi, i Bathory danno il via al filone vichingo con un capolavoro di musica oscura, epica e cadenzata. “Hammerheart” è la palese dimostrazione di come le emozioni vengano prima dei preziosismi esecutivi e la voce ruvida, quasi sgraziata di Quorthon resterà impressa nella memoria di tutti gli appassionati di questo sound. Difficile scegliere tra sette gemme di gelida bellezza, ma “Baptised In Fire And Ice” e soprattutto “One Road To Asa Bay” restano due meraviglie da cui il successivo movimento viking ha attinto a piene mani. (Andrea Sacchi)
Black Sabbath – Tyr (I.R.S: Records)
Anche i Black Sabbath tornano nel 1990 con un ottimo album di hard’n’heavy elegante ed epico che all’epoca fu purtroppo sottovalutato. Per molti i Black Sabbath senza Ozzy o senza Ronnie non sono nemmeno tali, ma un vocalist dotato come Tony Martin fu certo protagonista di album di buon livello, di cui “Tyr” rimane tra i migliori. La suggestiva “Anno Mundi” da il via a un disco che si muove tra hard rock barocco e recupero della matrice doom, trovando i suoi highlights in “The Sabbath Stones” e nella ballad “Odin’s Court”, parte centrale del breve concept dedicato alla figura mitologica del dio. (Andrea Sacchi)
Damn Yankees – Damn Yankees (Warner Bros.)
I Damn Yankees sono uno dei tanti esempi di supergruppo nato per caso che, in questo ordine, realizza un album di grande successo (proprio questo lavoro omonimo), azzecca il singolo di fama mondiale (“High Enough”) e si scioglie dopo pochissimi anni di attività lasciando dietro di sé un grande rammarico. Difficile ritrovare una band con un simile potenziale, capace di fondere in modo così spontaneo le due facce dell’hair metal di fine anni 80, quella più dura, sanguigna e grintosa e quella più tenera e romantica. L’accento va posto fra l’altro sul rapporto quasi simbiotico fra le due chitarre di Ted Nugent e Tommy Shaw, una fusione perfettamente riuscita a dispetto di due stili molto diversi fra loro. Da rivalutare (Anna Minguzzi).
Death Angel – Act III (Geffen)
Se pensate all’età media della band al loro debutto e all’evoluzione sonora di cui sono stati capaci in solo tre dischi, non mancherete di riconoscere come i Death Angel siano stati da mettere nella lista delle band fuori da ogni norma. “Act III” rappresenta il passaggio al mondo delle major e arriva dopo il successo mediatico di un brano come “Bored”. Appare così chiaro come la spinta verso un sound più funky fosse quasi obbligatoria, ma nonostante ciò nulla in questo disco suona minimamente commerciale o anche solo furbetto e costruito. Il mix tra energia thrash, tecnica strumentale, ritmiche funkeggianti e unicità stilistica ci regala song stupende come “Seemingley Endless Time”, “Discontinued”, “Stop” o Stagnant”. Uno dei punti più alti mai raggiunti dal thrash nella sua ricerca di uscire dagli schemi iniziali e ancora oggi un disco pieno zeppo di spunti originali. (Riccardo Manazza)
Extreme – Pornograffiti (A&M Records / Polygram)
“Pornograffiti” ha da un lato il merito di avere immortalato gli Extreme all’apice della loro creatività, e dall’altro il terribile macigno di avere etichettato per sempre la band come “quelli di “More Than Words”. Per fortuna l’album contiene molti altri momenti ancora più esaltanti di quella che a lungo andare si mantiene come una delle ballad rock più famose al mondo. Infatti basta scavare un po’ per immergersi nella perfetta fusione fra hard rock e funky, un aspetto a cui Nuno Bettencourt ha, per forza di cose, contribuito più di altri con il suo modo inconfondibile di destreggiarsi con le sei corde. A distanza di anni, il secondo lavoro degli Extreme conserva invariati fascino e carisma e non provoca cali di interesse durante l’ascolto (Anna Minguzzi).
Gamma Ray – Heading For Tomorrow (Noise Records)
Il disco di debutto dei Gamma Ray del profugo Kai Hansen mette subito in chiaro chiaro come la separazione dagli Helloween fosse a dir poco necessaria (soprattutto se pensiamo ai dischi successivi della band con Kiske in formazione). “Heading For Tomorrow” è un fantastico esempio di power metal melodico, un album che proietta il genere negli anni novanta e che mette in mostra non solo una qualità esecutiva senza macchia, con un Ralf Scheepers strepitoso, ma anche una serie di song clamorose. Tra tutte citiamo la giocosa “Heaven Can Wait”, il potentissimo tributo ai Priest che è “Space Eater”, ma anche la stupenda melodia di “The Silence” e la complessità da vera metal suite della lunga “Heading For Tomorrow”. Uno dei top assoluti del 1990. (Riccardo Manazza)
House Of Lords – Sahara (Simmons Records / RCA Records)
Anche dopo diversi anni dalla sua uscita e pur non avendo ottenuto risultati di vendita stratosferici, il secondo lavoro nella carriera degli House Of Lords viene ancora ricordato con molto affetto, anche se di solito l’unico estratto ancora eseguito in sede live è la cover di “Can’t Find My Way Home”. Nella sua interezza, il full length contiene già molti dei tratti che contraddistinguono tuttora la band di James Christian, come il grande uso dei cori e una serie di ritornelli da impatto immediato. Anche se va collocato un gradino sotto al suo predecessore, il disco omonimo uscito un paio di anni prima, “Sahara” raddoppia la sua potenza anche grazie a una carrellata di ospiti speciali, da Chris Impellitteri a Mike Tramp, da Doug Aldritch a Ron Keel, che fanno di tutto per accrescerne il valore (Anna Minguzzi).
Iron Maiden – No Prayer For The Dying (EMI)
Per alcuni è l’inizio del declino, per altri un disco fantastico che dimostra la capacità di evolversi di una band storica. Resta il fatto che alla sua uscita “No Prayer For The Dying” si presentò come qualcosa che i fan non si aspettavano. Il suono pulitissimo e senza spigoli, forse troppo leggero per chi aveva fama di band dura e pura, spiazzò molti, così come canzoni più melodiche e hard&heavy del solito, come “Holy Smoke”, “Bring Your Daughter To The Slaughter” o “Hooks In You”, ma anche la mancanza di un certo Adrian Smith in fase solista. Sta di fatto che l’album si aggiudica comunque tutti i premi di fine anno come miglior uscita del genere sulle riviste specializzate e che song come “Tailgunner”, “The Assassin” e “No Prayer For The Dyng” sono sicuramente da mettere tra quelle da ricordare. (Riccardo Manazza)
A breve la seconda parte. Nel frattempo potete godervi la playlist con i brani della prima parte della top 20 su Spotify.