Recensione: Running Out of Time Doing Nothing

Astenersi giudizi affrettati.

Ci sono gruppi musicali che è impossibile descrivere con poche parole: i britannici The Meads of Asphodel sono uno di questi. Un progetto musicale nato per scherzo e solo in studio, nonostante i toni seri dei vari membri, le continue immagini dei membri alle prese con costumi da crociati in fase di guerra, con una scelta di temi ora provocante (antireligiosità), ora benevola (anti-toatlitarianismo) e ora misantropia ironica (con tanto di invettive, parolacce e linguaggio molto semplice, anche nei confronti della politica), e tutto questo senza neanche rischiare una denuncia. Musicalmente altrettanto schizofrenici, costruirono il loro sound iniziale dal black metal grandioso degli Emperor e Cradle of Filth unendolo alla teatralità dei Queen, attingendo in seguito influenze dal power, dal thrash, dal death e, perché no, da qualche inserto quasi-sinfonico dovuto agli arrangiamenti di tastiera. Danno comunque il loro meglio di sé quando l’ironia prevale su tutto: non come in “Sonderkommando”, dove l’ansia di volere sembrare a tutti i costi democratici e anti-nazisti (con tanto di concept ispirato al genocidio degli ebrei) li faceva sembrare estremamente caotici e disperati. Fortunatamente, la loro ultima fatica in studio, “Running Out of Time Doing Nothing”, non è altrettanto costruita a tavolino, pur non essendo esente da difetti.

Dopo una traccia introduttiva, “I Am Oblivion, Deep Drenched in Forever” apre le danze con un sound quieto, calmo, pacato e decisamente poco metal, come del resto succede nel resto dell’album: non è un grave problema, poiché il gruppo è eclettico, ma è difficile non pensare al fatto che abbiano esaurito il budget. Gli elementi sono tutti lì: tracce di archi digitali, contrappunti, cambi di tempo, gli ormai deboli growl di Metatron e progressioni orecchiabili, ma non per questo meno dissacranti o piacevoli. La title track è praticamente un pezzo hardcore con tracce vocali coinvolgenti e un po’ di swing, “Black Is Black & White Is White” inizia con una sezione di batteria improvvisata per poi continuare con ipnotici giri melodici in Re minore e versi onomatopeici dall’effetto comico e un blast finale, e gli applausi e le risate campionate in risposta ai discorsi di politici all’inizio del pezzo techno “I Stood Tiptoe, Reaching Up for Heaven” confermano la vena ironica dell’album, anche grazie al proprio testo (“Join the cult of fucking death / Killing high on crystal meth / God is good & God is great / God was born to decimate / Fucking corpses in the morgue / Open casket necro whores / Spit roast shemales one by one / Bukakke faces covered in cum”). La prima traccia lunga, “Like Blood Shaped Flakes of Snow”, include la traccia vocale di un ragazzo e segue andamenti lenti, cadenzati e un po’ confusi con effetti videogioco anni 80, “Funeral Drums of Insomnia’s Labyrinth” è uno strano pezzo stoner con giri psichedelici e ipnotici, “Recollection of a Hand-Loom Weaver” include molte sezioni acustiche, e la finale “Souvenir of Death” sciorina ritmiche possenti e aggressive come il gruppo non era stato da un bel po’.

Prolissi (64 minuti, come al solito) ed eccentrici come non mai, i The Meads of Asphodel non hanno mai raggiunto particolari obiettivi o una fanbase solida e diffusa per ovvi motivi: in un ambiente fissato con la “tradizione” e ostile nei confronti dell’unicità e della versatilità come quello musicale (non solo metal), un gruppo del genere suscita più indifferenza che polemica. Eppure dubitiamo fortemente che il gruppo voglia fare qualcosa che non sia distintivo come questo album, che spicca perfino nella loro carriera. L’unico vero difetto che affligge quest’album è una produzione molto povera nei suoni e nella definizione degli strumenti, che minaccia più volte di renderlo noioso mentre le tracce scorrono, eppure la varietà di suoni, soluzioni e strumentazione usata lo rende prezioso, forse anche più di quello che dovrebbe essere.

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