Recensione: The Grave Digger

Com’è strano il destino. A metà anni ottanta i Grave Digger erano forse la gemma meno fulgida del panorama power tedesco che stava dando i natali a Helloween, Rage, Warlock e Running Wild. Oggi a tre lustri di distanza il nuovo album dei Digger si presenta suonato da una specie di super band con Manni Schmidt (ex Rage) nel ruolo di axe man unico, Jens Becker (ex Running Wild) al basso, Stefan Arnold (ex Capricorn e Grinder – immensi-) e mostra una formazione in piena forma. ‘The Grave Digger’ è un disco in linea con il passato, nessuno stravolgimento, nessunà novità eclatante, ma al contempo sembra che il song writing della formazione stia continuando a progredire. Sarà per la presenza di Manni alla chitarra (l’eroe di ‘Perfect Man’, l’album che fece esplodere i Rage nel lontano 1988) o per un generale livello qualitativo decisamente superiore ai prodotti spesso standardizzati del passato, ma questo ‘The Grave Digger’ piace e non poco. Il limite o il pregio della band rimane in ogni caso la voce del padre padrone Chris Boltendahl. Il protagonista del disco è comunque lui, il suo cantato perfido e tagliente accompagna i cori epici di ‘Son Of Evil’ e ‘Raven’ (uno dei pezzi migliori), il mid tempo dell’evocativa ‘Sacred Fire’ o della incalzante e multiforme ‘The House’… i Digger sono sempre Boltendahl e questa volta c’è qualcosa in più, in meglio. Una menzione particolare la merita la morbida e delicata ‘Silence’, brano conclusivo del lavoro, una concessione al sentimento che non stona assolutamente. Un ottimo album, tradizionalista, ma piacevolissimo (anche perché “suona” veramente bene). Vero puro ed incontrastato heavy metal. A chi consigliare questo album? A chiunque ami l’heavy vero, è scontato, ma anche a chi ha troppa fretta nel voler liquidare il metal classico come roba vecchia: finché usciranno dischi come questo, l’heavy metal sarà vitale e attuale.

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