The Cure: Live report della data di Milano

La dimensione dell’avvenimento è quella di un grande happening: il PalaSharp è gremito di un pubblico variegato e scalpitante, indice che la popolarità dei Cure in Italia non è stata affatto scalfita. Qualunque parte di pubblico, dall’inappuntabile dark di vecchia data alla giovane gotica tutta My Space e corsetteria, è qui per loro. Tanto che la performance dei pur bravi 65 Days Of Static, chiamati al difficile compito di aprire le danze, passa quasi inosservata ai più, mentre si va su e giù dalle gradinate in cerca dei posti ancora disponibili, ci si beve una birra o ci si accende una sigaretta in barba alla legge anti-fumo.

Quando i Cure salgono sul palco è un boato del pubblico milanese ad accoglierli. La band attacca con “Plainsong” e mette subito in luce un taglio molto rock’n’roll, essenziale ma notevolmente energico. Le chitarre di Robert Smith e Porl Thompson graffiano e spiazzano da subito l’audience insieme al basso severo di Simon Gallup. Il Signor Smith, a quasi cinquant’anni è un vera sicurezza, una solida figura sul palco che non lascia trapelare incertezze, forte di un carisma che non viene meno nonostante la quasi immobilità e di un tono che, sempre più distante da quello malinconico e strascicato da eterno adolescente, lascia spazio a un’impostazione morbida e interpretativa. Prima parte del set ad omaggiare il meglio della discografia degli inglesi, con estratti continui da “Disintegration”, “Pornography” e “Kiss Me Kiss Me Kiss Me”. Si distinguono “Pictures Of You”, la dolcezza di “Lovesong”, “Lullaby” (mai sentita in uno stile tanto scarno e affascinante) e tra le altre “Catch”, “One Hundred Years” e la stessa “Disintegration”. Ben tre i ritorni sul palco, sostenuti a gran voce dagli stanti. E’ un pubblico che balla quello milanese, è felice e compiaciuto di un’atmosfera che si respira raramente in occasione di un live. Il primo encore riesuma le sonorità del periodo dark di “Seventeen Seconds”, con “At Night”, “M”, “Play For Today” e naturalmente, “A Forest”, accolta dalle grida degli astanti. Ma non è finita qui. In occasione del secondo rientro gli inglesi inanellano “The Lovecats”, “Friday I’m In Love”, “In Between Days” e ancora una “Why Cant’I Be You?” all’insegna di quel romanticismo d’altri tempi, elegante e garbato. E le lancette dell’orologio tornano ancora più indietro quando i nostri, chiamati da ogni angolo del PalaSharp, emergono dalle tenebre per la terza ed ultima volta. “Boys Don’t Cry”, “10:15 Saturday Night” e “Killing An Arab” chiudono una serata magnifica e un concerto dal superbo spessore artistico. Una band senza tempo.

Andrea Sacchi

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Poser di professione, è in realtà un darkettone che nel tempo libero ascolta black metal, doom e gothic, i generi che recensisce su Metallus. Non essendo molto trve, adora ballare la new wave e andare al mare. Ha un debole per la piadina crudo e squacquerone, è rimasto fermo ai 16-bit e preferisce di gran lunga il vinile al digitale.

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