Recensione: Sweven

Con la lor miscela di death metal svedese old school e prog psichedelico i Morbus Chron sono una delle realtà più interessanti della scena estrema attuale. Non per niente la Century Media ha deciso di portarli prontamente all’interno del proprio roster, appena dopo il buon successo underground del primo album (“Sleepers In The Rift” uscito per Pulverised Records).

Se paragonato al debutto, ma anche al mini uscito ormai più di un anno fa già per Century Media, questo nuovo “Sweven” suona da subito ancora più indirizzato verso la psichedelia, fortemente presente già dal primo brano strumentale – che di death metal non ha nulla – ma anche nelle prime tracce cantate: “Chains” crea un’atmosfera liquida all’interno della quale la matrice death metal si diluisce senza mai scomparire, così come nella successiva, lunga e più tirata “Towards A Dark Sky”.

C’è in effetti una notevole varietà in campo, non solo tra un brano e l’altro, ma anche all’interno delle singole canzoni, con momenti di calma intrisi d’atmosfera quasi doom controbilanciati da crescendo ritmici carichi di tensione.

Nonostante le sonorità mai eccessivamente brutali, la musica dei Morbus Chron mantiene un’anima selvaggia e formalmente aggressiva. In parte questo lo si deve alle vocals di Robert Andersson, sempre bestiali e sguaiate(in stile Autopsy), ma è l’intero approccio con cui la band intende la propria composizione a generare la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di non frenabile, una musicalità che sfugge a troppe catalogazioni e procede furiosa per la propria strada.

Non è infatti la prima volta che estremismo sonoro nordico e scuola prog e psichedelica classica si incontrano (se vi ricordate ad esempio i grandiosi Ophthalamia, Ved Buens Ende o gli In The Woods, Crypt Of Kerberos, Miscreant etc), ma i Morbus Chron hanno saputo tornare alle origini senza usare la carta carbone, ricordandosi certamente la lezione di chi è venuto prima di loro, ma forse rispettando maggiormente le proprie radici death metal e ampliandole con elementi a volte sorprendenti come chitarre acustiche e dinamiche ritmiche inusuali nel genere (e più vicine alla scuola di band come Cathedral, Baroness, Mastodon, etc…).

Ne scaturisce uno stile che deve a molti (qualcosa anche al thrash a sua volta influenzato dalla psichedelia di Coroner e Voivod) senza però riconoscersi completamente in nulla che sia già stato fatto. Inutile negare che questo appare ai nostri occhi come un pregio di prima categoria e che se la band saprà far fruttare al meglio il capitale d’ispirazione a propria disposizione potremmo tranquillamente aver trovato uno dei gruppi in gradi di lasciare un segno negli anni a venire.

Riccardo Manazza

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Incapace di vivere lontano dalla musica per più di qualche ora è il “vecchio” della compagnia. In redazione fin dal 2000 ha passato più o meno tutta la sua vita ad ascoltare metal, cominciando negli anni ottanta e scoprendo solo di recente di essere tanto fuori moda da essere definito old school. Il commento più comune alle sue idee musicali è “sei il solito metallaro del cxxxo”, ma d'altronde quando si nasce in piena notte durante una tempesta di fulmini, il destino appare segnato sin dai primi minuti di vita. Tra i quesiti esistenziali che lo affliggono i più comuni sono il chiedersi il perché le band che non sanno scrivere canzoni si ostinino ad autodefinirsi prog o avant-qualcosa, e il come sia possibile che non sia ancora stato creato un culto ufficiale dei Mercyful Fate.

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