In occasione del nuovissimo album ho avuto l’opportunità ed il piacere di fare quattro chiacchiere con il chitarrista Mark in modo molto onesto e diretto riguardo a tanti argomenti tabù sulla band. Grazie alla sua disponibilità abbiamo così creato un quadro perfetto intorno allo stato di salute sia suo che del gruppo, andando in profondità su argomenti molto personali ma strettamente legati con la musica dei Suicide Silence.
Come stai?
Sto bene, anzi molto bene. Il disco finalmente è uscito e la mia vita sta andato bene. Magari ogni tanto in modo caotico, ma sempre bene.
Vi ho visti pochi mesi fa a Milano per il tour del Never Say Die, com’è andato il tour?
Il tour è andato alla grande e la data italiana per noi è stata una delle migliori serate in Europa. L’energia di quel concerto sarebbe potuta continuare tutta la notte, incredibile. Per il resto è stato il nostro primo tour nel vecchio continente dopo un po’ di tempo, con ottime band. Davvero un bel ritorno da voi.
“Remember… You Must Die” sigla il vostro ritorno sotto Century Media dopo 3 album sotto Nuclear Blast, come mai questa scelta?
Senza tirarla troppo per le lunghe: abbiamo scritto la storia quando eravamo con Century Media, ma quando la lasciammo c’erano dei grossi cambiamenti all’interno dell’azienda. Compreso Mike Gitter, che per primo ci ha fatto sottoscrivere un contratto con loro. Dopo un po’ di tempo siamo tornati in contatto con lui, considera che è stato il primo vero supporter della band già nel 2004, quando ancora era con RoadRunner Records. Infatti quando all’epoca fu assunto da CM Records, poco dopo il nostro incontro sapevamo già che presto o tardi ci avrebbe messo sotto contratto.
Quindi ora che è come essere tornati a casa, dove ci conoscono al meglio e soprattutto dove possiamo esprimerci al meglio.
Vuoi spiegarci il titolo? È palese che è un messaggio ben indirizzato
Penso che tantissimi leggano il titolo e pensino che sia un modo per ricordarti che presto o tardi tu possa morire, ma non è esattamente così. Le canzoni che man mano venivano scritte iniziavano a toccare diversi argomenti come la mortalità in generale, il tempo che inesorabilmente scorre per tutti. Come questo ci cambi, come un singolo secondo possa ucciderti. Abbiamo trascritto in chiave moderna la poesia latina in inglese e molte di queste citazioni possono ricondurre alla classica frase “memento mori”. Tantissime liriche del nostro disco infatti sono direttamente riconducibili a questa precisa citazione. Da parte nostra è un messaggio non per ricordarti che morirai presto o tardi, ma semplicemente che le cose non durano per sempre. Non è assolutamente diretto a nessuno, è per dirti che non sei eterno, l’altra faccia della medaglia di “You Only Live Once”. Quella canzone è di quando eravamo più piccoli e non ce ne fregava un cazzo di quello che poteva succedere, potrebbe sembrare un tradimento del nostro modo di vivere, ma riguardandoci ora, da adulti, con un occhio diverso pensiamo sempre che possa finire in qualsiasi momento.
È un disco molto diretto che segue l’ottimo “Become The Hunter” entrambi usciti in momenti particolari: il primo poco dopo la morte di tuo padre, sincere condoglianze, ed il secondo nell’anno post pandemico. Come hai affrontato la stesura di “Remember” e la tua perdita ha cambiato il tuo modo di scrivere la musica?
Penso che la morte di mio papà abbia influenzato sia il mio modo di scrivere sia il modo in cui io prendo ispirazione nella musica. Penso anche che qualsiasi cosa accada cambi il modo in cui tu elabori la tua vita. Di conseguenza è inevitabile che determinati avvenimenti, soprattutto nel caso della morte di un genitore, ti cambino dal lato dell’approccio musicale. Per rispondere quindi alla tua domanda: sì. Mio papà era un eccellente chitarrista, uno shredder pauroso e quello che ho passato l’ho usato per darmi energia e tirare fuori i miei sentimenti. Ho sempre cercato di scrivere in questo modo, ma in questo frangente è stato molto complicato. In passato ho provato sempre a impressionare mio papà mostrandogli i miei riff, vista la sua bravura, e anche per cercare un aiuto da parte sua. Mi piaceva vederlo contento delle canzoni che scrivevo per i Suicide Silence. Concludendo, ho cambiato il mio modo di approcciarmi ai riff e alle strutture delle canzoni.
Per quel che riguarda la pandemia, invece, è stato tremendamente difficile non essere creativo per tutto quel tempo. So che mi ripeto, ma ogni cosa influenza il tuo modo di scrivere, soprattutto per me che sono una persona molto creativa anche nella stesura dei testi, costruire beat e renderlo il più estremo possibile. In caso di una perdita così importante ti cambia in modo drastico.
In un momento in cui il death-core si sta evolvendo con mille sfaccettature differenti, voi siete rimasti fedeli al vostro sound. Cosa ne pensate del momento death-core attuale e vi sentite ancora parte di questo movimento?
Il deathcore inevitabilmente sarebbe dovuto evolvere, e da parte nostra deve essere chiara una cosa: non siamo partiti come una band death-core. Abbiamo iniziato a suonare e in un certo senso è stato il death-core a venire incontro a noi. Non abbiamo cercato in alcun modo di dettare gli standard di questo genere, ma man mano che scrivevamo musica è stato come se lo stesso si sia modellato a noi. Questo ci ha portati a non interessarci della sua evoluzione nel tempo, siamo quello che siamo e scriviamo quello che scriviamo. Non abbiamo mai cercato di interessarci troppo alle nuove sonorità, siamo rimasti noi stessi. È ovvio che ci rendiamo conto che diverse cose di oggi siano comunque ispirate bene o male a quanto abbiamo scritto in passato, senza considerare che capitava più spesso anni fa. Noi vogliamo essere fedeli a noi stessi, senza paure. Poi per onestà intellettuale l’attuale scena death-core, la seconda ondata, è incredibile! Dalla scomparsa di Mitch ci sono pochissimi front-man che possono considerarsi delle “rockstar”: Phil Boezman, Scott dei Carnifex, Johnny dei JFAC, Alex dei Despite Icon, Johnny Plague dei Winds of Plague, ma senza screditarli: nessuno è né sarà come Mitch.
Mentre ora ci sono ancora meno persone che hanno la stessa energia: l’unico che mi viene in mente è Will Ramos dei Lorna Shore. In questo momento è la vera star, ma sono contento che ci sia finalmente un nuovo protagonista con questa fama. Saranno almeno cinque anni che non c’era così tanto interesse nei confronti di un cantante death-core, quindi sono veramente felice per lui e per il nostro genere. Oltre al fatto che suonano una versione death-core totalmente differente rispetto alla nostra ma scritta in maniera stupefacente. Ed è altrettanto incredibile che comunque la loro musica sia parte del genere, questo mi porta a ricordare gli anni del nu-metal: i Deftones lo erano come gli Slipknot.
Un po’ come la prima ondata metalcore chiamata “nu-metalcore”
Esattamente! Noi non vogliamo essere come i Lorna Shore, sono produzioni esagerate e sofisticate, scritte davvero bene e d’impatto. Ma non è quello che cerchiamo, immagina se dovessimo pubblicare un disco simile? Ci sarebbero persone che ci accuserebbero di cercare di imitare altri per risultare di moda.
Noi siamo old-school death-core e saremo sempre così, un po’ come i Cannibal Corpse nel death metal. In conclusione, siamo amanti del metal e facciamo solo musica che ci piace!
Vi sentite il peso dell’essere la band più iconica di questo genere?
Assolutamente si, sentiamo la pressione ogni volta che pubblichiamo un disco nuovo e di come verrà scrupolosamente studiato. Se poi avrà anche un discreto successo commerciale verrà subito odiato, e la gente si sentirà legittimata a dirti: “Chissà cosa ne penserà Mitch” e stronzate simili. Ma come ho già detto in passato, sarei molto più triste se non ci fosse nessuno a parlarne, che nessuno si sentisse indignato o altro. Mi sentirei molto di più il fallimento di non aver nessuna risposta rispetto al contrario.
Recentemente alcune band come i Monuments hanno condiviso i costi spropositati delle tasse per la vendita del merch in alcuni paesi europei, inclusa l’Italia purtroppo. Visto il momento storico molto complesso; come state vivendo questo momento dal punto di vista della musica dal vivo?
Penso che tutti abbiamo il diritto di protestare per i propri diritti. Noi come band siamo sempre stati attenti per quel che riguarda il discorso tasse nei vari stati europei, quindi per abbassare il costo del merch abbiamo scelto in passato stanze d’hotel più economiche ad esempio. Oppure non portare tutta la nostra roba dentro e fuori pagandoci due volte le tasse, ma sistemarlo al confine e vendere solo lo stretto necessario in alcune date, rischiando anche di finirlo durante la serata. Abbiamo sempre pagato quanto richiesto nei vari stati, ma preferiamo non rischiare trasportando una quantità enorme di magliette e così via. Ed è così praticamente un po’ ovunque, il Canada ad esempio è un altro paese complicato da questo punto di vista. Purtroppo è molto difficile per i musicisti perché il margine di guadagno è sempre più basso, ma non è solo la musica ad esserne colpita. È sempre molto complicato quando devi pagare il 25% per l’affitto del merch e poi ci sono alcuni posti in cui paghi fino all’80% in VAT (tasse generiche nda). Ma anche in questo campo sto notando dei cambiamenti, delle evoluzioni in merito tipo la vendita di un voucher da utilizzare online sul sito della band. Chissà cosa ci riserva il futuro da questo punto di vista.
Avete da poco festeggiato 15 anni di carriera con una ristampa di “The Cleansing”, che ricordi hai di quell’album?
Ero così giovane all’epoca, era il 2006 quando abbiamo iniziato a scrivere. Andavo ancora alle superiori e per concentrarmi al meglio sulla band ho mollato la scuola, infatti ero il più giovane del gruppo. Ero in quello stato di super eccitamento ed incredulità di essere parte di una band in procinto di pubblicare un disco. Soprattutto perché sapevamo che il nostro album era molto atteso da tantissime persone e che sarebbe stato ascoltato subito, nel frattempo hanno pubblicato diversi altri gruppi come i Job For A Cowboy o i Whitechapel. C’era questa nuova scena che stava nascendo, tutti molto concitati ma allo stesso tempo confusi su come sarebbe potuto diventare da lì a breve. Però se lo guardi dal punto di vista interno della band era anche un momento molto romantico per come eravamo legati e concentrati a fare il nostro disco. Eravamo poveri, tanto poveri! Dormivamo sul divano della mamma di Alex Lopez (ex batterista nda), suonavamo tutto il giorno e poi si correva subito in studio. Era un momento speciale in cui stavamo insieme praticamente tutto il giorno a suonare, una situazione che non si è più ripetuta in futuro. Anche se scrivendo questo ultimo disco c’era più o meno la stessa energia che abbiamo messo durante “The Cleansing” o “No Time To Bleed” quindi in un certo senso capisco quando la gente riconosce una sorta di similitudine con il nostro sound di origine.
In che modo sei venuto in contatto con la band all’epoca?
Con MySpace! La storia è questa: suonavo in questa band chiamata “From Agony Within” della quale non c’è traccia su internet, nemmeno io ho il demo che avevo registrato, l’avrò sicuramente perso. Eravamo una sorta di metalcore alla Killswitch Engage, Chimera ma ho mollato il gruppo perché ero stufo di tutti ed è stata la prima volta in cui ho deciso di mia spontanea volontà di mollare una band.
Ero ad una festa con loro ed insieme al bassista ci siamo messi nel suo furgone a fumare una canna quando gli ho detto: “Ragazzi, questo weekend ci sarà l’ultimo concerto che farò con voi. Voglio fare qualcosa con più blast-beats, di più estremo”.
Tre mesi dopo ero a casa di un amico insieme ad altra gente, uno alla volta si utilizzava l’unico PC disponibile per curiosare un po’ su MySpace quando lo sento che mi urla “Ehi Mark i Suicide Silence cercano un chitarrista, dovresti provarci”. E così feci, conoscevo il bassista all’epoca (Mike Bodkins nda) perché si esercitava nella cantina di un negozio di tatuaggi in cui lavoravo come ragazzo dei volantini. Avevo 15 anni ed era il mio primo lavoro, il proprietario Mike Ferguson aveva molta simpatia nei miei confronti tanto da pagarmi il primo show della mia vita e ogni tanto mi dava 20 dollari per farci quello che volevo. Quindi conoscevo Bodkins, gli faccio una chiamata, ci incontriamo con tutti e facciamo una prova. La prova va bene e mi dicono che da lì a due settimane c’è uno show così mi danno un CD con delle tracce live di un vecchio concerto allo “Showcase Theater” di Corona quando aprirono per il tour americano degli Aborted nel 2004. Gli Aborted erano in USA per la prima volta in assoluto e avevano esplicitamente chiesto i Suicide Silence come supporter, e nel CD senti Mitch dire al pubblico: “tutti quanti urlate per gli Aborted dalla Germania” ma so che loro sono Belgi (ride nda).
Così imparo le canzoni da quel CD, studio bene il set per andare a suonare al “Whiskey A Go Go” di Hollywood che fu il mio primo show con loro e la prima vera prova come chitarrista. Dopo lo show mi hanno detto che se volevo il posto era mio.
So che tuo papà ha influito molto sulla scelta di suonare la chitarra! Chi sono stati i tuoi artisti che ti hanno ispirato maggiormente quando eri adolescente?
Tommy Iommi, Angus Young, Jimmy Page, Kerry King, Jeff Hanneman, Dimebag, Hetfield, Kirk Hammet. Ero il “Metallica Guy” non il “Megadeth Guy” (ride nda) ma ho sempre amato lo stile di Marty Friedman, Alex Skolnick, Alexi Lahio, Steve Vai, Eddie Van Halen mi piacciono molto i classici. È stato in un secondo momento quando mi sono lanciato nel metal estremo, ma le mie basi le ho fatte sui classici: Tom Petty, Steve Miller Band, Robin Trower, Jimi Hendrix. Da piccolo ero abituato ad ascoltare una radio locale “95.5 Klos” che proponeva questi artisti come anche i The Doors, la mia band preferita. Inserisco nell’elenco anche i The Who! Pete Townshend è un grande ed è così che ho imparato a suonare. Come diceva Steve Vai “allena il tuo orecchio” così mi mettevo davanti alla TV e suonavo qualsiasi jingle mi capitasse di ascoltare. Tanti grandi nomi, non mi sono mai interessato alla musica estrema fino ai 16 anni in quanto mio papà era un appassionato di musica Jazz e mi insegnava quella alla chitarra. Era un amante della avant-gard music e mi ha fatto conoscere i Deeper Cuts, Peter Sprague e altri artisti underground di questo filone. Ma io sono innamorato dei classici, in tour suono sempre gli AC/DC tanto che la mia prima chitarra fu una Epiphone SG.
Riascoltando il vostro “Self Titled” album del 2017 devo ammettere che è di una profondità incredibile. La scena death-core purtroppo non ammette questi suoni ma dal mio punto di vista è un disco molto personale. Ad esempio “Dying In A Red Room” ha un sacco di influenze Anathema e Radiohead, ma oltre a questo: secondo te l’accoglienza freddissima da parte della critica e i meme che sono nati intorno a questo disco vi hanno in qualche modo bloccato dallo sperimentare diverse sonorità rimanendo nel mondo del death-core classico?
La risposta semplice sarebbe si, ma allo stesso tempo posso dirti che abbiamo sperimentato davvero molto in quel disco. Tutte le canzoni sono state un incredibile esperimento sonoro. In passato ci siamo sempre posti la domanda di come un nostro disco sarebbe stato accolto dai nostri fans, ma per quello ci siamo presi diverse libertà e non ci siamo minimamente posti il problema rischiando molto. Ci siamo spinti davvero in là tanto che non ce n’è più bisogno e non ci è rimasto molto da provare.
Ci piace molto il nostro sound e quello che facciamo quindi è stato naturale tornare sui nostri passi, avevamo bisogno di sperimentare e l’abbiamo fatto e ti dirò che quando ci siamo messi a registrare questo disco su qualche idea pensavamo di ispirarci dal nostro “Self Titled” album ma con un esecuzione molto più in linea coi Suicide Silence. Sicuramente in futuro ci sarà spazio per qualche nuovo azzardo ma probabilmente quel disco è stato in qualche modo forzato.
La morte di Mitch è ancora molto sentita da parte dei fan, ne abbiamo costantemente la prova ad ogni vostro concerto. Quanto influisce ad oggi il suo ricordo nell’affrontare della nuova musica? Vi sentite in dovere di rendergli il giusto tributo?
Assolutamente si, quando facciamo quello che facciamo è per portare avanti il nostro nome: Suicide Silence. Ancora oggi Mitch ha una fortissima energia su di noi, sulla nostra musica e sulle nostre vite. Lo conosciamo ad un livello tale che probabilmente pochissime persone se ne rendono conto. Ed è facile, almeno per me, galvanizzare questo suo ricordo e questa energia in tutti i nostri processi musicali. E voglio dire una cosa: leggo commenti e post di gente che parla di lui e c’è così tanta leggenda intorno a Mitch che si è creata una sorta di eredità digitale che non è al 100% vera, ma non sarò di certo io a dire che non è proprio così.
Noi portiamo la sua energia con noi rendendolo orgoglioso dei nostri traguardi. È molto importante per noi.
L’intervista è finita, ti ringrazio per tutte le risposte che mi hai dato! Spero di vederti presto ancora in Europa
Grazie a te! A presto Italia!
