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Stryper – Recensione: The Final Battle

E’ fuor di dubbio che “The Final Battle”, oltre a rappresentare il quattordicesimo lavoro realizzato in studio dagli Stryper, abbia anche costituito una sfida dal forte carattere personale: a rendere la gestazione di questo album ancora più difficile non bastavano infatti gli effetti psicologici / economici della pandemia, con i quali molti artisti hanno dovuto fare i conti, ma anche i problemi di salute in capo al cantante Michael Sweet ed al chitarrista Oz Fox hanno deciso di rendere più difficoltoso il percorso di avvicinamento a questa battaglia finale. Ideale seguito di una fase con la quale la formazione californiana ha dato nuovo impulso alla propria carriera, con la pubblicazione in regolare successione di “No More Hell To Pay” (2013), “Fallen” (2015), “God Damn Evil” (2018) ed “Even The Devil Believes” (2020), “The Final Battle” è la testimonianza più recente di un gruppo che già negli anni ottanta assaggiava le posizioni più alte delle classifiche, che ha venduto oltre dieci milioni di copie, che ha potuto mantenere in larga parte stabile la propria line-up e che ha saputo unire il proprio fervore religioso ad una produzione di qualità mai banale.

Stryper - "Transgressor" - Official Music Video

Con la promessa di un suono ancora più heavy rispetto al passato, i tre quarti d’ora dell’album – disponibile anche in tre diverse edizioni in vinile – si aprono sulla note di una “Transgressor” che davvero sembra strizzare l’occhiolino al metallo più tradizionale. Riff di chitarre e cori sono quanto di più classic e nostalgico i tempi post-pandemici potessero restituirci, insieme all’immagine di una band compatta e concentrata, che proprio nelle origini del metal – e nella fede – sembra aver ritrovato le energie per superare i momenti più bui. Sembra quasi di sentirlo, l’assolo di chitarra, mentre si divincola tra le asperità ritmiche, come una specie di metafora che – posta così, in apertura – detta parte delle atmosfere vetrose destinate a colorare l’intero lavoro. Si ricava più o meno la stessa impressione dalle canzoni che crescono poco alla volta, sfociando in un bel ritornello corale: è il caso ad esempio di “Heart & Soul” e dell’ottima “Rise To The Call”, rocciose sulle prime ma poi capaci di sciogliersi come cioccolatini grazie ad un ritornello azzeccato e ad una linea di basso che aggiunge dinamismo e fantasia. Un po’ come la sua copertina demodè sembra anticipare, con un’iconografia che unisce Thor, Manowar e messaggio cristiano, “The Final Battle” è un disco di suoni distinti e pregnanti, talora rarefatti (“See No Evil, Hear No Evil”), disposto a sacrificare qualcosa in termini di guizzo e creatività per soffermarsi sulla rotondità di un suono di rullante, sulla potenza di un coro ben orchestrato (“Ashes To Ashes”), su un crescendo lento che potrà soddisfare chiunque cerchi (ancora) nel metal soluzioni più heavy che smart.

Se da un lato va apprezzata l’onestà con la quale gli Stryper abbiano dato vita esattamente a quel tipo di album heavier che loro (e Frontiers) avevano in mente, dall’altro non si può non intravedere in “The Final Battle” una certa staticità che ne rallenta i movimenti ed in qualche modo ne compromette l’impatto. E così gli episodi migliori e rispettabilissimi finiscono con l’identificarsi nei momenti che, anziché inseguire le insidie dell’heavy, preferiscono fare un passo indietro ed adagiarsi in quel territorio hard rock che, a conti fatti, sembrerebbe più consono all’età, alla storia ed al momento: “Near” e “The Way, The Truth, The Life” diventano così i veri ed inaspettati punti forti di un ellepì nato sotto un’altra stella, guidato dalla rabbiosa voglia di opporsi alle avversità ma in parte inadeguato a veicolare con imponente irruenza quel tipo di messaggio. Punti che nulla, ma proprio nulla hanno a che fare con l’immagine di copertina, il numero 777 (“la Trinità”) posto alla fine della presentazione del disco e le filosofiche premesse che sembrano essere alla base di questo sofferto lavoro: tracce più consumabili e terrene, se volete, ma proprio per questo perfette per riportarci a quella dimensione quotidiana che spesso rappresenta il vero antidoto al momento di sconforto o alla difficoltà imprevista.

Benchè la qualità delle composizioni si mantenga generalmente buona, fattore tutt’altro che scontato dopo quarant’anni di carriera e tempi ovunque difficili, ci sono una manciata di tracce come “Same Old Story” e “No Rest For Wicked” che sembrano soffrire il carattere compassato di questa produzione, non riuscendo a colmare con la propria autorevole figura gli spazi lasciati liberi dalla sezione ritmiche (come avviene anche in “Out, Up & In” e “Till Death Do Us Part”, del resto). L’intento genuino di dare vita ad un disco importante e di rassicurante potenza traspare spesso dai solchi di “The Final Battle”, ma non si ripresenta né con una frequenza né con un’intensità sufficienti a fare di questo disco quel disco. Meglio allora tenersi stretti i momenti meno pretenziosi, veri underdog capaci di garantire un’inequivocabile rilevanza a quello che rimane – a tutti gli effetti – un disco meritevole di un ascolto.

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