Recensione: Spock’s Beard

Il fatto che venga strombazzato ai quattro venti che con il presente album omonimo (nonostante sia il nono di una prolifica carriera) gli Spock’s Beard si siano lasciati definitivamente alle spalle “l’era Morse” non ci trova per nulla d’accordo! È infatti innegabile come già ‘Feel Euphoria’ ma soprattutto ‘Octane’ fossero album “di rottura”, che denotavano non solo l’introduzione di elementi modernisti ma che mettevano in atto anche una rilettura aggiornata dello stile della band americana; peraltro è vero che il presente lavoro è più focalizzato e variegato…insomma un sunto di quanto di meglio la band possa offrire oggigiorno.

L’opener ‘On A Perfect Day’ riprende lo stile che ha reso celebre il gruppo fondato dai fratelli Morse con un Nick D’Virgilio sempre più convinto delle proprie possibilità canore; a confermare la centralità del musicista già collaboratore di Tears For Fears e Fates Warning vi è anche il mixaggio della batteria in primissimo piano che non va comunque a togliere importanza agli altri musicisti. Lo strumentale ‘Skeletons At The Feast’ è veramente un macigno, con un Alan Morse che si lancia in un assolo d’apertura molto distante dal suo “gioco” abituale; la band sembra evolvere ulteriormente nonostante il già marcato iato con il passato di cui abbiamo parlato prima…e forse la scelta del titolo non è dovuta solo ad una carenza d’inventiva. Detto di una ‘All That’s Left’ che si erge ad immensa power ballad (dalla classe sopraffina), dell’originalità di With Your Kiss’ con quella parentesi percussiva centrale e la base blues che si trova anche in altri momenti del CD (‘Sometimes They Stay, Sometimes They Go’) sembra davvero di essere al cospetto di un album di altri tempi (‘Wherever You Stand’) quelli in cui i Kansas “regnavano” nell’universo rock americano e dove cenni di tecnica impensabili (‘Here’s A Man’) venivano incastonati in tappeti melodici di gran presa. Forse il continuo balzare da “straight rockers” a dolci ballate crea una leggera discontinuità nell’attenzione dell’ascoltatore (siamo comunque intorno ai 78 min. di durata) ma la band ha in serbo molte frecce al proprio arco soprattutto per ciò che concerne alcune scelte stilistiche estremamente personali che la rendono incatalogabile e la fanno muovere in direzioni differenti mantenendosi sempre calda e coinvolgente.

Sempre un gradino sopra la media…il gradino dei grandi del rock!

Alberto Capettini

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Fan di rock pesante non esattamente di primo pelo, segue la scena sotto mentite spoglie (in realtà è un supereroe del sales department) dal lontano 1987; la quotidianità familiare e l’enogastronomia lo distraggono dalla sua dedizione quasi maniacale alla materia metal (dall’AOR al death). È uno dei “vecchi zii” della redazione ma l’entusiasmo rimane assolutamente immutato.

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