“The Kindness Of Strangers” ha un valore particolare per il sottoscritto perché fu proprio tramite questo album (per l’esattezza in occasione della ristampa di Giant Electric Pea del 1998) che scoprii quella che si è rivelata una delle più attive ed interessanti band dell’ultimo ventennio, gli Spock’s Beard.
Questo album univa un’anima più pop rispetto alle digressioni strumentali dei primi due lavori della band, “The Light” e “Beware Of Darkness” ma rimaneva comunque indiscutibilmente prog nelle intenzioni.
Pronti via infatti arriva “The Good Don’t Last” con i suoi 9 minuti introdotti da un violoncello per proseguire in una ridda di Hammond, tempi dispari e voci reminiscenti i Beatles; qui sono praticamente condensati tutte le principali caratteristiche dello Spock’s Beard sound almeno fino a “Snow” e la separazione dal leader Neal Morse. Anche la ballad “June”, nella quale Morse duetta con Nick D’Virgilio (che lo sostituirà da “Feel Euphoria” in poi prima dell’ulteriore avvicendamento con Ted Leonard) è un classico riconducibile alla ditta Lennon/McCartney e anche ai cantautori americani della West Coast.
“In The Mouth Of Madness” è un classico dal vivo, pop/rock song stravolta dalle tastiere di Ryo Okumoto e dal finger picking di Alan Morse mentre “Cakewalk On Easy Street” è vicina agli Echolyn anche se gli Spock’s Beard hanno avuto decisamente più airplay.
Chiudono due lunghi pezzi di chiara connotazione prog: la cosa positiva di questa band è che, a differenza di buona parte dei gruppi neo prog o altre realtà al limite della tribute band, ha preso strutture tipiche degli anni ‘70 ma anche della tradizione cantautorale americana creando un mix e una serie di album davvero inattaccabili… alla maniera dei Kansas, forse il loro nume tutelare più riconoscibile.
L’impatto di “The Kindness Of Strangers” è ancor più diretto che in passato, in un personalissimo tributo alla tradizione rock fatto di tecnica, sapienza melodica e capacità compositive che rendono questo lavoro una delle gemme della seconda metà dei tanto bistrattati anni ’90… sempre che non abbiate ritenuto sin dalle origini questa ripresa del progressive un sottogenere troppo autoreferenziale.