Speciale Ronnie James Dio: i dieci brani più sottovalutati

Giù il cappello e in alto le corna, quando si parla di Ronald James Padavona, il nostro adorato Dio del metallo. Una carriera che è quasi un unicum nella storia della musica, perché il grande americano di origine italiane, è riuscito a raggiungere il grande successo non una, bensì tre volte, grazie ai Rainbow di mastro Blackmore, ai Black Sabbath dell’uomo di ferro Toni Iommi, ed infine con la sua lunga e prolifica carriera solista. Ma non possiamo dimenticare i suoi esordi e i promettenti Elf, decisivi per portare il cantante nel mondo musicale che contava davvero. Cinquanta anni di concerti e dischi, grandi successi ed una solidità compositiva che lo ha portato a scrivere canzoni immortali, inni indelebili, ma anche tante piccole perle nascoste che spesso, vengono ingiustamente dimenticate. Anche i dischi “peggiori” di Dio, contengono tanti momenti da incastonare, e riascoltati oggi, acquistano decisamente un altro valore. Il tempo spesso, cambia la percezione delle cose ed anche della musica. E quindi, oltre i grandi e scontati classici, noi faremo, insieme a voi, un piccolo viaggio nel tempo, riesumando dieci capitoli di cui si parla meno di altri, ma l’invito rimane quello di andarsi ad ascoltare tutto il materiale di questa eterna icona delle sette note, che va oltre i generi ed oltre il tempo. (Antonino Blesi)

ELF – FIRST AVENUE (“Elf” – 1972)

Dopo i suoi inizi nel mondo della musica, risalenti alla fine degli anni ’50, Ronald James Padavona, meglio noto come Ronnie James Dio, fonda assieme al cugino chitarrista Dave Feinstein (che in seguito fonderà i Rods)una band chiamata Elf. Il loro debutto omonimo, prodotto da Roger Glover, risale al 1972, ed è caratterizzato da un hard rock’n’roll diretto e trascinante, dove Ronnie oltre che cantare ricopre anche il ruolo di bassista.

Il brano che abbiamo scelto da questo debutto è “First Avenue”, un delizioso rock blues che mostra una vocalità del nostro già matura e perfettamente a proprio agio in sonorità che, per chi lo conosce solamente per le produzioni successive, potrebbero sembrare insolite. Ma non ci si può non far conquistare dal groove rilassato, dal botta e risposta, nel ritornello, fra voce principale e cori dall’intenzione gospel e da una generale freschezza interpretativa che fa di questo brano, ma in generale di tutto l’album, un gioiellino da riscoprire. (Daniele Zago)

ELF – LIBERTY ROAD (“Triyng to Burn the Sun”)

Trasferiti dagli USA all’Inghilterra, sostituito il chitarrista con Steve Edwards, e con l’acquisizione del bassista Craig Gruber, che lascerà Dio libero di dedicarsi totalmente alla voce, gli Elf pubblicano l’ottimo “Carolina County Ball” nel 1974 e l’anno successivo il capitolo finale della loro carriera, “Triyng to Burn the Sun”. Lo stile, pur rimanendo nell’ambito dell’hard rock intriso di r’n’r, è più sontuoso rispetto al debutto, come dimostrato da questa “Liberty Road”, un gioioso inno che al rock’n’roll di base aggiunge cori e arrangiamenti più elaborati.

Da lì a poco il genio inquieto di un certo Ritchie Blackmore, in rotta coi Deep Purple, sceglierà la band americana (con l’ovvia esclusione di Edwards) per registrare il suo debutto con una nuova esperienza musicale denominata Rainbow. Il resto è storia. (Daniele Zago)

LADY OF THE LAKE (“Long Live Rock’n’Roll”)

In un album iconico per la storia della musica come “Long Live Rock’n’Roll” dei Rainbow non ci sono né filler, né punti deboli. Alcuni solchi di questo capolavoro però, come spesso accade, hanno ottenuto meno notorietà di altri. Ecco allora che a fianco delle celeberrime bordate della title track e di “Kill The King” trova spazio un brano sanguigno e dal ritornello epico come “Lady Of The Lake”. Un piccolo gioiello tanto breve quanto prezioso, che va assolutamente riscoperto e non ha nulla da invidiare alle altre tracce del disco. Scontato dire che la passionale ed energica interpretazione di Ronnie James Dio contribuisce in maniera fondamentale a rendere indimenticabile anche questo capitolo del platter. Più che un pezzo sottovalutato, una canzone che deve ancora sgomitare per farsi spazio in un contesto così leggendario! (Matteo Roversi)

OVER AND OVER (“Mob Rules”)

Mob Rules” non fu sicuramente un album facile da realizzare anche solo per il fatto che arrivasse dopo il capolavoro “Heaven And Hell”. Dio stava ormai imponendo la sua impronta sul nuovo corso dei Black Sabbath e l’arrivo di Vinnie Appice fu un ulteriore tassello che faceva ormai intendere come questa band fosse qualcos’altro rispetto all’era Ozzy. “Over And Over” rappresenta il lato più doom dei Sabbath, un cerimoniale dall’andamento lento che lascia il proscenio al piccolo singer dalla voce impossibile e ad un Tony Iommi che si lancia in una sorta di jam solista travolgente che ci traghetta fino alla fine del pezzo e dell’intero lavoro. Accendete le candele ed abbandonatevi al rituale. (Alberto Capettini)

I (“Dehumanizer”)

L’incedere spavaldo e poderoso di “I”, spudorato inno all’individualismo che viene ben reso dal testo tagliente e da un tessuto sonoro sferragliante e sicuro, tipico della produzione cupa e quasi “industriale” di “Dehumanizer”, disco del 1992 che sancisce il ritorno dei Black Sabbath dell’era “Heaven And Hell”, e che serviva a rilanciare sia un gruppo in difficoltà commerciale, che una carriera solista di Dio, un po’ decadente. Lavoro che ebbe un discreto successo, ma non fu adeguatamente compreso, e tappa molto veloce e bruciante nella storia della band. Infatti, dopo pochi mesi, fu lo stesso Ronnie a lasciare, “colpevole” di non voler condividere lo stesso palco di Ozzy Osbourne, e assolutamente contrario ad ogni tipo di compromesso. Eppure, i suoni prodotti da Reinhold Mack (famoso per essere più esperto in campo pop, e collaboratore di lunga data dei Queen più commerciali) hanno certamente influenzato molto metal degli anni successivi, tra suggestioni post grunge e la visione di un futuro che non promette nulla di buono. (Antonino Blesi)

A LIGHT IN THE BLACK (“Rising”)

È pressoché impossibile aggiungere ulteriori lodi ai mitici 33 min. diRising”, album del 1976 tramite il quale i Rainbow portarono l’hard rock in una nuova dimensione epica e “moderna”, gettando le basi per quel power metal che farà breccia nei cuori di tanti metallari. “A Light In The Black” è il pezzo che chiude l’album col suo ritmo sostenuto merito del martellamento costante dei tamburi da parte di Cozy Powell e della prova maiuscola di Ronnie James Dio, che ci mette tutta la grinta necessaria nelle strofe per sostenere le magniloquenti parti soliste del leader Ritchie Blackmore e di Tony Carey alle tastiere. Davvero improbabile che fuoriclasse del microfono di oggi come Jorn Lande o Russell Allen non abbiano consumato un pezzo ed un album del genere. (Alberto Capettini)

DIO – SUNSET SUPERMAN (“Dream Evil”)

Il Dio solista del 1987 deve fare già i conti con due album come “Holy Diver” e “The Last In Line”, talmente riusciti da rendere difficile creare un seguito degno, anche grazie all’addio di Vivian Campbell, chitarrista geniale ma capriccioso. Craig Goldy arriva da Giuffria e i Rough Cutt, e sembra essere un eccellente sostituto, e quando arriva nei negozi “Dream Evil”, il responso è positivo, ma senza troppi clamori. “Sunset Superman”, si muove tra un testo malinconico ed un saliscendi sonoro che va dalla velocità stordente della strofa, fino ad un ritornello anthemico e fiero, degno dei Rainbow più metallici. Un coro martellante che non se ne vuole più andare, ottimo rappresentante di uno dei migliori dischi dell’era solista di Dio, oggi totalmente da rivalutare. (Antonino Blesi)

DIO – KILLING THE DRAGON (“Killing The Dragon”)

Dopo l’elaborato concept album di “Magica”, Ronnie decide di semplificare e tornare ad una forma canzone molto più diretta, e decisamente meno drammatica e cupa. Toglie tante tastiere, dà spazio alla vena rock and roll del nuovo chitarrista Doug Aldrich e fa uscire, nel 2002, questo “Killing The Dragon”, album essenziale ma molto godibile. E’ la title track ad introdurre il nuovo corso, grazie ad un cavalcata possente ma non opprimente, ed un’altra prestazione vocale da manuale del grande cantante. Una ricetta semplice ma che rimane nel tempo, accompagnata da un testo fintamente fantasy, che invece è un caldo invito a combattere e vincere le proprie paure più recondite e temute. Da riascoltare ancora ed ancora. (Antonino Blesi)

HEAVEN & HELL – BIBLE BLACK (“The Devil You Know”)

“The Devil You Know” del 2009 è l’ultimo saluto di Dio, ed un altro disco di grande forza espressiva ed impatto deflagrante, successore naturale di “Dehumanizer”, che rinuncia alla velocità per rimanere intenso e profondo, forse più del consueto. E questa “Bible Black”, assume immediatamente il ruolo di nuovo classico, per la sua struttura elaborata, che da un arpeggio oscuro e menestrellesco, si evolve in un mantra sonoro avvolgente e magniloquente, degno delle migliori pagine dei Black Sabbath dei primi anni ottanta. Ma è tutto il disco che merita di essere considerato tra i grandi capolavori dell’artista americano. Un’altra storia di angeli e demoni, che cercano la pace e trovano la dannazione.” (Antonino Blesi)

STRANGE HIGHWAYS (“Strange Highways”)

Con “Strange Highways” torniamo a parlare di un capitolo della discografia di Dio che non riscosse il successo sperato. Che sia stato, all’epoca della sua uscita, per una formazione non apprezzata dai fan o per un indurimento troppo marcato delle sonorità, non lo sappiamo, fatto sta che, a distanza di anni, anche questo lavoro merita una riscoperta e, in generale, che gli sia data un’altra chance. La title track si caratterizza per un incedere lento e marcato, già visto in altri brani celebri della discografia dell’artista, e per un’atmosfera generale cupa e quasi rassegnata. E’ come se il panorama e le sensazioni descritte nel brano fossero definitive, quasi un dogma di fede, comunque impossibile da modificare. Dopo un inizio sommesso, l’intensità aumenta in fretta, con la voce ancorata in modo solido agli strumenti. Le ritmiche danno l’impressione di un gigante che avanza, inesorabile e terribile, contribuendo in modo importante al senso di oppressione generale. (Anna Minguzzi)

Anna Minguzzi

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E' mancina e proviene da una famiglia a maggioranza di mancini. Ha scritto le sue prime recensioni a dodici anni durante un interminabile viaggio in treno e da allora non ha quasi mai smesso. Quando non scrive o non fa fotografie legge, va al cinema, canta, va in bicicletta, guarda telefilm, mangia Pringles, beve the e di tanto in tanto dorme. Adora i Dream Theater, anche se a volte ne parla male.

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