Per la prima delle tre date italiane, gli Slayer scelgono una località balneare molto apprezzata anche da tedeschi e austriaci: il risultato è un pubblico internazionale, che pian piano riempie l’arena e le gradinate.
Ad aprire la serata sono i Sadist.
Alle 21 entrano in scena gli Shrine, che regalano uno spettacolo decisamente coinvolgente: con il loro incedere potente e sincopato, in mezz’ora conquistano i presenti – magari avvezzi a ritmi più frenetici ma comunque per nulla indifferenti dalla band con il suo sound cupo, a tratti doomeggiante, che fa da contrasto alla luce del giorno. L’afa estiva scoraggia molti dei presenti a scendere nell’arena, dove l’asfalto restituisce calore e sudore, ma comunque l’esibizione del power trio americano può dirsi efficace, e trova il culmine con il prolungato crowdsurfing del frontman Josh Landau, indemoniato nel suo macinare riff su riff.
L’attesa per l’arrivo degli Slayer cresce con l’arrivo del buio, pronto ad accoglierli in tutta la loro spettacolarità: sì, perché a colpire in prima battuta è l’impatto scenografico della band, Araya che si staglia al centro del palco fiancheggiato dal fido Kerry King e da un Gary Holt sempre più integrato nei meccanismi degli Slayer. Dietro di loro, a dettare il ritmo e dispensare colpi dall’alto, Paul Bostaph. La scaletta ripesca una metà dell’ultimo “Repentless” e fa un excursus nella produzione passata della band, ma il concerto ha un impatto monolitico, colpendo allo stomaco e al cervello gli spettatori che si scatenano nell’arena, il tempo scandito dal drumming potentissimo di Bostaph e le scariche di adrenalina che arrivano soprattutto da un ispiratissimo King.
Araya, istrione, addomestica il pubblico e lo fa scatenare nei momenti giusti, buttando qua e là qualche parola di italiano e richiamando il comune amore per la musica (!). Holt, come si diceva, è abbastanza contenuto nei movimenti ma musicalmente ineccepibile, perfetto nel suo ruolo di quarto uomo per un amalgama davvero invidibaile. Le luci illuminano band e pubblico rendendoli entrambi protagonisti dello show, per la cui riuscita è fondamentale il suono pulito, quasi chirurgico nella sua precisione. L’atmosfera malsana che permea “Seasons In The Abyss” e “South Of Heaven” (primo bis) rimangono ineguagliabili nella loro spaventosità ed arrivano al termine di una sorta di salita nel pandemonio. Tra i bis pure “Raining Blood”, mentre il compito di chiudere spetta a “Angel Of Death”, inevitabile e tagliente come sempre.