E’ stato necessario un cambio di venue per poter ospitare tutti gli spettatori accorsi a vedere Slash nella sua veste. Saul Hudson è arrivato a Milano per promuovere il suo lavoro solista: una vera e propria parata di stelle, fra le quali è stato scelto Myles Kennedy, voce degli Alter Bridge, ritenuto il più idoneo ad interpretare i pezzi nel tour. Anzi, a sentire Slash in una delle poche battute regalate nel corso della serata è stato proprio Kennedy ad insistere per proporre dal vivo i nuovi brani, assieme ad un’appetitosa fetta del passato dello stesso Slash, leggi Guns’n’Roses, Snakepit e Velvet Revolver.
Una sfida vinta prima di tutto dallo stesso cantante, in possesso di un range che gli consente di affrontare di petto e con indiscutibile efficacia un repertorio interpretato da voci molto diverse tra loro. A colpire, in questo senso, soprattutto l’impatto devastante dei pezzi targati Velvet Revolver, che a più riprese sconquassano il Palasharp. Ciò non toglie che il centro dell’attenzione rimanga pur sempre Slash, per presenza scenica, per il volume della sua chitarra, e pure per l’aggressione di un fan: durante l’assolo di "Sweet Child Of Me" il chitarrista viene travolto, ma un attimo dopo ha già imbracciato nuovamente la chitarra e prosegue come niente fosse, guadagnandosi l’epiteto di supereroe affibbiatogli prontamente da Myles Kennedy. La formazione è completata da Bobby Schneck (Weezer, Green Day) alla chitarra ritmica e ai cori, Dave Henning (Doug Pinnick, Big Wreck) al basso e da Brent Fitz (Alice Cooper, Vince Neil) alla batteria.
Andando con ordine, l’esibizione comincia puntualissima con l’opener da brividi dell’album solista: in studio "Ghost" era interpretata da Ian Astbury, ma poco importa davvero nel momento in cui chi non lo conosce si rende conto di dove può arrivare Kennedy. La scaletta alterna con intelligenza espressioni delle vari mutazioni di Slash, e così ecco in sequenza "Mean Bone" (Snakepit), "Nightrain" (Guns) e un’impressionante "Sucker Train Blues" (Velvet Revolver). I ritmi si dilatano in "Back From Cali" prima di una strepitosa "Beggars & Hangers On", dal repertorio degli Snakepit. Brividi per "Civil War" e chapeau per "Rocket Queen", poi viene proposta per la prima volta da questa formazione "Fall To Pieces", efficace ballad targata Velvet Revolver, prima di "Dirty Little Thing". "Nothing To Say" precede "Starlight", prevedibilmente un altro degli apici del concerto. L’assolo di Slash, una nemmeno troppo personale rielaborazione de "Il Padrino", è a dire il vero un po’ pacchiano. Assolutamente entusiasmante, invece, "Sweet Child Of Mine", al punto che l’episodio di cui sopra passa in secondo piano: con buona pace dei fan di Axl Rose, di cui non si discute l’istrionismo, Kennedy gli tiene testa con sicurezza quanto a voce e tecnica, regalando ancora una volta brividi. Arriva il turno anche degli Alter Bridge, dei quali viene proposta "Rise Today", prima della chiusura affidata alla terremotante "Slither", altro pezzo targato Velvet Revolver – una band di cui emerge indirettamente tutto il valore, se non altro a livello compositivo.
Il primo bis è forse il momento musicalmente più alto della serata: "By The Sword", primo singolo dall’ultimo album interpretato originariamente da Andrew Stockdale degli Wolfmather, raggiunge altezze siderali, con Kennedy che si muove a proprio agio nel cielo e Slash che regala squarci di irresistibile groove prima di lasciarsi andare nella cover di "Communication Breakdown", quasi un reminder di ciò che sarebbe potuto diventare Kennedy, qualora la reunion dei Led Zeppelin fosse andata in porto. C’è spazio per un ultimo attesissimo bis: per "Paradise City" è tripudio, l’inevitabile epilogo di una serata ad altissimo tasso di adrenalina, che non ha lasciato un attimo di respiro – in questo complice, perdonate la battuta, pure la gente che continuava a fumare incurante del divieto e della mancanza d’aria – agli spettatori, tutti esausti per aver cantato e ballato, tutti comunque felici.