Slash: “The Cat In The Hat: The Story So Far”

“Slash – The Cat In The Hat: The Story So Far”, il documentario di 131 minuti che racconta la storia del leggendario chitarrista, verrà pubblicato su Blu-ray il 21 agosto con la Pride.

“Una delle icone della chitarra, che oggi è considerato uno dei migliori esponenti Hard Rock al mondo! A 20 anni dallo scioglimento del gruppo che lo ha reso celebre, Slash continua a far parlare di sè, con album solisti, grandi collaborazioni e tour da tutto esaurito. Un documentario su doppio DVD che racconta la stori di questo incredibile artista!”

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Slash: Live Report della data di Milano

E’ stato necessario un cambio di venue per poter ospitare tutti gli spettatori accorsi a vedere Slash nella sua veste. Saul Hudson è arrivato a Milano per promuovere il suo lavoro solista: una vera e propria parata di stelle, fra le quali è stato scelto Myles Kennedy, voce degli Alter Bridge, ritenuto il più idoneo ad interpretare i pezzi nel tour. Anzi, a sentire Slash in una delle poche battute regalate nel corso della serata è stato proprio Kennedy ad insistere per proporre dal vivo i nuovi brani, assieme ad un’appetitosa fetta del passato dello stesso Slash, leggi Guns’n’Roses, Snakepit e Velvet Revolver.

Una sfida vinta prima di tutto dallo stesso cantante, in possesso di un range che gli consente di affrontare di petto e con indiscutibile efficacia un repertorio interpretato da voci molto diverse tra loro. A colpire, in questo senso, soprattutto l’impatto devastante dei pezzi targati Velvet Revolver, che a più riprese sconquassano il Palasharp. Ciò non toglie che il centro dell’attenzione rimanga pur sempre Slash, per presenza scenica, per il volume della sua chitarra, e pure per l’aggressione di un fan: durante l’assolo di "Sweet Child Of Me" il chitarrista viene travolto, ma un attimo dopo ha già imbracciato nuovamente la chitarra e prosegue come niente fosse, guadagnandosi l’epiteto di supereroe affibbiatogli prontamente da Myles Kennedy. La formazione è completata da Bobby Schneck (Weezer, Green Day) alla chitarra ritmica e ai cori, Dave Henning (Doug Pinnick, Big Wreck) al basso e da Brent Fitz (Alice Cooper, Vince Neil) alla batteria.

Andando con ordine, l’esibizione comincia puntualissima con l’opener da brividi dell’album solista: in studio "Ghost" era interpretata da Ian Astbury, ma poco importa davvero nel momento in cui chi non lo conosce si rende conto di dove può arrivare Kennedy. La scaletta alterna con intelligenza espressioni delle vari mutazioni di Slash, e così ecco in sequenza "Mean Bone" (Snakepit), "Nightrain" (Guns) e un’impressionante "Sucker Train Blues" (Velvet Revolver). I ritmi si dilatano in "Back From Cali" prima di una strepitosa "Beggars & Hangers On", dal repertorio degli Snakepit. Brividi per "Civil War" e chapeau per "Rocket Queen", poi viene proposta per la prima volta da questa formazione "Fall To Pieces", efficace ballad targata Velvet Revolver, prima di "Dirty Little Thing". "Nothing To Say" precede "Starlight", prevedibilmente un altro degli apici del concerto. L’assolo di Slash, una nemmeno troppo personale rielaborazione de "Il Padrino", è a dire il vero un po’ pacchiano. Assolutamente entusiasmante, invece, "Sweet Child Of Mine", al punto che l’episodio di cui sopra passa in secondo piano: con buona pace dei fan di Axl Rose, di cui non si discute l’istrionismo, Kennedy gli tiene testa con sicurezza quanto a voce e tecnica, regalando ancora una volta brividi. Arriva il turno anche degli Alter Bridge, dei quali viene proposta "Rise Today", prima della chiusura affidata alla terremotante "Slither", altro pezzo targato Velvet Revolver – una band di cui emerge indirettamente tutto il valore, se non altro a livello compositivo.

Il primo bis è forse il momento musicalmente più alto della serata: "By The Sword", primo singolo dall’ultimo album interpretato originariamente da Andrew Stockdale degli Wolfmather, raggiunge altezze siderali, con Kennedy che si muove a proprio agio nel cielo e Slash che regala squarci di irresistibile groove prima di lasciarsi andare nella cover di "Communication Breakdown", quasi un reminder di ciò che sarebbe potuto diventare Kennedy, qualora la reunion dei Led Zeppelin fosse andata in porto. C’è spazio per un ultimo attesissimo bis: per "Paradise City" è tripudio, l’inevitabile epilogo di una serata ad altissimo tasso di adrenalina, che non ha lasciato un attimo di respiro – in questo complice, perdonate la battuta, pure la gente che continuava a fumare incurante del divieto e della mancanza d’aria – agli spettatori, tutti esausti per aver cantato e ballato, tutti comunque felici.

Giovanni Barbo

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Appassionato di cinema americano indipendente e narrativa americana postmoderna, tra un film dei fratelli Coen e un libro di D.F.Wallace ama perdersi nelle melodie zuccherose di AOR, pomp rock, WestCoast e dintorni. Con qualche gustosa divagazione.

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Recensione: Slash

Quello di Slash – formalmente suo esordio solista – è uno degli album piu’ attesi dell’anno, sia per il musicista ed il personaggio in sé e per sé, sia per la notevole parata di star che ha messo insieme. Basta scorrere i nomi di chi si alterna dietro il microfono per farsi venire l’acquolina in bocca: voci che vanno dal metal all’hard rock fino al pop. E pure i pesi piu’ leggeri, leggi Adam Levine dei Maroon 5 e Fergie dei Black Eyed Peas, non stupiscono se si pensa che proprio quest’ultima è già stata protagonista – e con notevole successo – di numerosi appuntamenti live con Slash. A completare la band sono stati chiamati, invece, Chris Chaney (Jane’s Addiction) al basso e Josh Freese (Nine Inch Nails) alla batteria. E se dopo la scorpacciata di ospiti dai nomi altisonanti ci si può chiedere se non si tratta soltanto di sfoggio fine a se stesso, la risposta in questo caso è no.

Fatta notare l’esistenza di diverse versioni dell’album (la scaletta riportata a fianco è quella dell’edizione americana, già in commercio in questi giorni), vale la pena di sottolineare come – un po’ a sorpresa, se si pensa al peso ed al carisma del personaggio in questione – Slash faccia un passo indietro, consentendo ai vari cantanti la possibilità di personalizzare adeguatamente i propri pezzi, e di aggiungere quel bonus di varietà che miracolosamente non si trasforma mai in eccessiva eterogeneità. Innegabile ed inevitabile pure che la “fusione” in alcuni casi funzioni meglio che in altri: su tutti una parola in più la merita, forse, Myles Kennedy, che dopo gli Alter Bridge ed il quasi ingresso nei Led Zeppelin trova meritatamente un’ulteriore vetrina con due pezzi (rispetto a quella italiana, nell’edizione americana c’è anche la vibrante ed assolutamente imperdibile “Back From Cali”) cuciti apposta su di lui. Kennedy è, molto semplicemente, uno dei migliori cantanti hard rock in circolazione, e non perde occasione per confermarlo, prendendosi la rivincita sui problemi di salute e sulla lunga gavetta con i sottovalutatissimi Mayfield Four. Rimanendo sulle acrobazie vocali, il primo singolo dell’album è quello cantato da Andrew Stockdale degli Wolfmother: scelta solo in parte condivisibile, perché pur trattandosi di un ottimo pezzo non è certo tra quelli più memorizzabili. Più efficace, in questo senso, “Beautiful Dangerous” della già citata e sorprendente Fergie: un pezzo pieno di energia e con un chorus strepitoso. E stupisce pure Adam Levine dei Maroon 5, che nella delicata elettricità di “Gotten” si muove su melodie da pelle d’oca. Tra i pezzi grossi del gotha dell’hard rock il più convincente è Lemmy, che nel chorus della quasi animalesca “Doctor Alibi” sembra fare il verso a se stesso quando canta: “I won’t be the one you like, I won’t be the boy next door, I won’t be the chosen one, That’s not what I’m here for”. Ma dov’è Slash, in tutto ciò? Il fatto che non imponga la propria presenza sempre in primo piano non significa che i pezzi non siano perfettamente riconoscibili come suoi: gli indizi sono sparsi qua e là, a partire dal riffing iniziale di “Ghost”, dove il suo trademark è evidente, così come nell’appena citata “Doctor Alibi”, dove il suo stile è tutt’uno con le esternazioni di Mr. Kilmeister.

Si potrebbe continuare nell’analisi pezzo per pezzo, e di sicuro ognuno avrà preferenze diverse da quelle del sottoscritto: quel che conta, alla fine, è che seppur forse meno immediato di quanto ci si potesse attendere, “Slash” è un grande album, in cui uno dei chitarristi – volenti o nolenti – più influenti degli ultimi venticinque anni è la mastermind dietro un irripetibile spaccato di ciò che è l’hard rock, oggi.

Giovanni Barbo

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