Gli anni ’80 stanno tornando in auge, o forse ci sono già tornati e sono addirittura già finiti di nuovo nel dimenticatoio. Rimane un fatto che parecchie delle band che hanno reso grande, seppur a suo modo, quell’epoca musicale, continuano a dare più o meno incoraggianti segnali di vita e vitalità. Fra i risultati più interessanti, quelli messi in mostra dagli Skid Row orfani di Sebastian Bach, che con il nuovo frontman Johnny Solinger hanno realizzato due lavori in minima parte legati al passato. Certo, qualche cenno a "Slave To The Grind" c’è, ma la sostanza della nuova proposta musicale è profondamente diversa, meno melodica e più moderna. Non modernista, per fortuna, e i risultati di questa "piccola" differenza risuonano fragorosi nell’impatto live della band, capace di entusiasmare il foltissimo pubblico accorso al New Age.
Il clima lo riscaldano i veneti Side One, con una proposta tra il glam e lo street piuttosto convincente, supportata da una presenza scenica e da una personalità notevoli: è uno show che cattura e fa ballare il loro, la maniera migliore per preparare il piatto principale della serata.
L’apertura degli Skid Row è con un trittico da spaccare le costole: "Makin’ A Mess", "Piece Of Me" e "Sweet Little Sister" entusiasmano, e se Johnny Solinger non ha la voce di Sebastian Bach, sopperisce a ciò con una grinta senza pari. Ma la sorpresa della serata è l’affiatamento con la band dimostrato dall’Hair Of The Dog Ryan Cook, chiamato a sostituire al volo Dave "Snake" Sabo, bloccato a casa da problemi di visto. Cook diverte e si diverte, lancia plettri a destra e a manca e si guadagna l’applauso del pubblico. Bene Scotti Hill, benissimo Rachel Bolan, e alla batteria Dave Gara non lesina potenza e verve. La scaletta, come sottolinea lo stesso Solinger, ripropone tutti i classici del passato, ma senza dimenticare la nuova musica composta dalla band, perché – come dice il frontman enfaticamente – altrimenti non avrebbe senso continuare a suonare. Certo è che la debolezza dell’ultimo "Revolutions Per Minute" viene in qualche modo compensata dall’energia con cui ne vengono riproposti gli episodi, su tutti "Another Dick In The System", mentre l’eccellente e grasso "Thick Skin" viene omaggiato con la sola – non entusiasmante – "New Generation". Ma è solo un dettaglio. Perché l’energia messa in classici come "Monkey Business" – il pogo che si scatena sotto il palco – e "Big Gun" è energia vera, è sudore, è passione. Non brillante l’esecuzione di "18 And Life", mentre a sorpresa "I’ll Remember You" viene proposta due volte – in versione acustica e in versione elettrica – ma non in quella veloce e scanzonata apparsa su "Thick Skin".
C’è spazio per la malinconia e per l’invito a non ascoltare chi dice che questo genere di musica è morta, prima di chiudere il set regolare con la monumentale "Slave To tHe Grind". E poi spazio, a sorpresa, a "Beat Yourself Blind", dallo scialbo "Subhuman Race", e a "Get The Fuck Out". Chiusura in trionfo con "Youth Gone Wild", chiamata a gran voce dal pubblico.
Mozzafiato.