Recensione: The Fire Inside

Giunto all’undicesima tappa della sua produzione discografica, il musicista tedesco Siggi Schwarz si è avvalso della collaborazione del veterano dell’esercito americano Dave Schaefer (voce) per autoprodurre un album, registrato dal vivo, che intende far rivivere le atmosfere di un rock dalla forte connotazione a stelle e strisce, che dalle espressioni più elementari delle origini si è evoluto nelle forme ascoltate a cavallo tra gli anni settanta ed ottanta. Trattandosi di un apprezzato chitarrista, spesso voluto da Bryan Adams, Santana, The Who, Foreigner, Scorpions e ZZ TOP in apertura dei loro concerti, è normale che questo blues/rock sia intriso di riff di stampo classico ed assoli gradevoli (“BBoogie”), benchè mai davvero pirotecnici. A suonare meno naturali, compromettendo in parte la possibile godibilità del progetto, sono i suoni un po’ freddi e meccanici che accompagnano le sei corde: si crea così una distanza tra i piani – con voce e chitarre su un piano, e tutto il resto in un indefinito altrove – che spezza l’illusione dell’esibizione. Se escludiamo questo aspetto, e concediamo che in un lavoro tedesco l’aspetto “organizzativo” dei suoni tenda a rivestire un’importanza relativamente ingombrante, “The Fire Inside” può essere descritto come una serie di canzoni di facile ascolto, più orientate alle radici più umili del rock che non alle sue forme più contemporanee.

Ancora più classico del semplice classico, il disco di Siggi Schwarz sembra piuttosto un omaggio genuino al rock’n’roll della colonna sonora di Ritorno Al Futuro, che nel 1985 immaginava come sarebbe stato tornare al 1955: non solo le strutture dei brani sono quasi primordiali per la totale mancanza di complessità, ma anche i toni di “Activated” o “Give It To Me” sono volutamente leggeri e fatti apposta per divertire senza tante pretese. Nonostante si tratti di un lavoro che sfiora l’ora di durata, i quindici episodi nei quali l’album si divide possono essere ridotti ad elementi davvero semplici ed immediati, senza che mai affiori tra le note la volontà di ricercare una profondità, una lettura trasversale o una citazione capace di portare l’ascoltatore in uno stato d’animo differente.

Certo, ci sono l’instant-songLockdown Love” oppure i cori eterei di “Love Is A Way” che un sorriso possono strapparlo, ma sarebbe eccessivamente generoso ravvisare in un banalissimo riempitempo blues (nel primo caso) o in un dolce ritornello abbandonato nel mezzo del nulla (nel secondo) due fattori determinanti al punto da rendere questo ascolto un’attività consigliabile senza riserve, ed il compact disc un oggetto da fare proprio ad ogni costo. Non sono i suoni ad essere ripetitivi, dal momento che ciascuna istantanea è di per sé perfettamente ascoltabile, quanto piuttosto il mood monocorde che porta la band, qui fronteggiata da un volenteroso ma poco spettacolare Dave Schaefer, a ripercorrere avanti ed indietro lo stesso sentiero. Fino a scavare il solco.

Per quanto l’estrema semplificazione alla base di tutto il disco non faccia necessariamente rima con ripetitività, è difficile scrivere con trasporto di un lavoro che a regalare trasporto non è per nulla interessato, e la cui scaletta non fa nulla per mascherare l’inutilità assoluta e improvvisata di brani come “Daydreamer” o “Rockin’ Through The Night”, quest’ultima vera perla al contrario dell’opera… almeno prima di avere ascoltato “Simple Life” ed il suo chorus “Yee Yee Yee, Yoo Yoo Yoo”. Difficile parlare di emozione quando questo rock non mostra mai spessore, e difficile parlare di sentimenti quando l’unica cosa che i musicisti sembrano fare – con normale mestiere – è seguire la parte poco ispirata che è stata loro assegnata. Non servono molti passaggi per capire che “The Fire Inside” è un disco difficile da comprendere per l’eccessiva superficialità dei suoi troppi racconti, tendenza che nella parte finale della scaletta conosce un ulteriore quanto irreversibile aggravamento: progressivamente svuotato di linfa e significato, l’album si trascina stancamente su una base di melodie inconsistenti (“You Know Better”) e folkeggianti (“Super Hyperactive Boy”) fino ad un finale che per molti avrà il sapore dolceamaro di una liberazione. Ed a quel punto non basterà la “solita” buona produzione tedesca per giustificare il tempo (ormai) perso a cercare tra le ceneri di questo fuoco dentro un messaggio irrilevante ed uno scopo inesistente.

Marco Soprani

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Folgorato in tenera età dalle note ruvide di Rock'n'Roll dei Motorhead (1987), Marco ama fare & imparare: batterista/compositore di incompresa grandezza ed efficace comunicatore, ha venduto case, lavorato in un sindacato, scritto dialoghi per una skill di cucina e preso una laurea. Sfuggente ed allo stesso tempo bisognoso di attenzioni come certi gatti, è un romagnolo-aspirante-scandinavo appassionato di storytelling, efficienza ed interfacce, assai determinato a non decidere mai - nemmeno se privato delle sue collezioni di videogiochi e cuffie HiFi - cosa farà da grande.

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