Quando ho letto il nome dei Sarayasign ho immaginato, nelle mie fanciullesche fantasie, che questa band potesse discendere più o meno direttamente da quei Saraya che nel 1989 deliziarono i nostri timpani con le note di “Love Has Taken Its Toll”. Ma il fatto che i primi provengano dalla Svezia, mentre quelli che ricordavo io erano americani del New Jersey, ha mandato in frantumi il sogno… come quando, già alle soglie dell’adolescenza, alcuni amici d’animo crudele mi rivelarono – eravamo credo a Madonna di Campiglio – che secondo un’opinione accreditata e diffusa Babbo Natale non esisteva. Questo detto, il disco che ascoltiamo oggi arriva dalla città di Örebro, dove i Sarayasign si sono formati meno di tre anni fa con l’intento di creare musica che fondesse, in un mix nelle premesse indubbiamente interessante, le influenze degli anni settanta con la narrazione di stampo cinematografico del ventunesimo secolo. Archiviato con soddisfazione il disco di debutto (“Throne Of Gold” è del 2022), il quartetto scandinavo si è accasato alla sfarzosa corte di Frontiers ed è grazie alle stampe dell’etichetta napoletana che arriva dunque “The Lion’s Road”, continuazione del primo album e sempre ispirato alle vicende di un mondo immaginario, chiamato appunto Saraya, creato dalla fervida mente del batterista e polistrumentista Jesper Lindbergh.
Lungo quasi un’ora ed articolato su dieci tracce di durata consistente, “The Lion’s Road” si presenta subito abile nel fondere la sua componente narrativa con un approccio sorprendentemente agile e brillante: nella loro visione, storytelling non fa quindi rima con descrizioni lente e verbose, preferendo al contrario un approccio caratterizzato da riff freschi ed incalzanti. La voce di Stefan Nykvist è pulita e comunica il giusto con gusto (“The Beginning Of The End”, “Love Will Burn”), privilegiando la musicalità a quella interpretazione di tipo teatrale che a molti non piace, per il modo in cui la personalità esuberante che richiede toglie all’equilibrio del brano. Qui l’approccio è finto-leggero e radicalmente differente, e la natura narrativa di concept appare come un’aggiunta gradita ma in nome della quale musicalità e cantabilità non hanno dovuto mai scendere a compromessi. Ogni traccia, a partire dall’iniziale “When All Lights Go Out”, suona perfettamente rifinita ed ottimamente arrangiata, azzerando ogni forma di banalità a favore di un’esecuzione vissuta, vibrante e scoppiettante.
Certamente non mancano gli elementi più direttamente atmosferici, come la pioggia posta nell’apertura di “Blood From Stone”, ma con i Sarayasign si ha la sensazione che, a conti fatti, non sia veramente questo il punto: l’interesse dei quattro rimane quello di coniugare al meglio melodie e parti strumentali (“Hope And The Sorrow“), ricercando la potenza del racconto più nella perfetta armonia degli elementi che in qualche effetto speciale di longevità limitata. E la scelta, come spesso accade quando si decide di percorrere la via più lunga e tortuosa, paga: le influenze seventies non saranno così evidenti (c’è forse un timido qualcosina in “Everdying Night”), così come l’aspetto cinematografico non è poi tutto questo granchè, ma se calassimo “The Lion’s Road” nell’arena più terrena ed affollata dell’hard rock ci troveremmo tra le mani un prodotto solido e competitivo (“The Lion’s Road”), dalle orchestrazioni grandiose e – pur senza lambire le melme insidiose del prog – abile nello sfruttare quel minuto di canzone in più per aggiungere una pennellata, ripetere un bel ritornello incurante delle ristrettezze dei tempi radiofonici o concedere alle sei corde di Peter Lundin quattro battute extra per prolungare il piacere di un bell’assolo.
Al secondo disco dei Sarayasign va riconosciuto il merito di proporre qualcosa dotato di un qualche elemento di novità: il loro è infatti un rock melodico nel quale la melodia non rappresenta il fine ultimo né la giustificazione. Al contrario, essa costituisce un punto di partenza (sempre presente) dal quale decollare alla ricerca di una complessità graduale e sempre piacevole, perfino romantica (“A Way Back”), in virtù della quale questo si potrebbe definire il rock per l’ascoltatore pensante, un marchio che non sempre ha portato fortuna ai gruppi più coraggiosi – lo dicevano dei Queensryche – ma che in qualche modo rende l’idea. Impossibile infine non sottolineare il contributo offerto dalla voce femminile di Olivia Thörn: la qualità della sua performance è tale (“Will You Find Me” è tanta, tanta roba) che l’omissione del suo nome dal testo di presentazione dell’album è una gaffe clamorosa e scortese alla quale sarebbe elegante/opportuno rimediare prima possibile. A tutto questo, si aggiunge la considerazione che sviluppare un prodotto di quasi un’ora preservandone in ogni momento lo spirito e l’accessibilità non è impresa di poco conto: ascoltando “The Lion’s Road” non si notano stalli né cali di distrazione, con la musica dei quattro svedesi sempre abile nel tenere l’ascoltatore sulle spine, invitandolo a cantare, a contemplare le pianure distese di un passaggio, ad indovinare – almeno nel corso dei primi ascolti – cosa succederà dopo. Un viaggio che è alienazione, colore, emozione e sana distrazione, e che esso stesso rappresenta la più personale ed intima delle narrazioni. C’era una volta…

Etichetta: Frontiers Music Anno: 2023 Tracklist: 01. When All Lights Go Out 02. Blood From Stone 03. A Way Back 04. The Beginning Of The End 05. Will You Find Me 06. Everdying Night 07. The Lion’s Road 08. Love Will Burn 09. Hope And The Sorrow 10. Throne Of Gold Part Ii – A Heartless Melody Sito Web: facebook.com/Sarayasign |