Recensione: Gravity

I Ring Of Fire sono una band californiana fondata nel 2000 dal cantante Mark Boals (Yngwie J. Malmsteen, Shining Black), autrice di tre album dal 2001 al 2004 e successivamente riaffacciatasi sulle scene nel 2014 con “Battle Of Leningrad”. “Gravity” rappresenta pertanto un secondo ritorno, ad otto anni di distanza dall’ultima uscita, con il quale il nucleo storico formato dallo stesso Boals e dal tastierista Vitalij Kuprij si ripresenta con dieci nuove tracce di ispirazione power / neoclassica eseguite con il supporto tutto italiano di Aldo Lonobile (chitarre), Stefano Scola (basso) e Alfonso Mocerino (batteria). Anche questa volta si direbbe che Frontiers è stata in grado di scovare un artista di provata affidabilità, testimoniata dalla lunga militanza e dalle collaborazioni importanti, che ha ancora tanto da dire ed al quale l’etichetta italiana ha offerto una seconda, o forse terza occasione.

A giudicare dalle prime note di “The Beginning” si direbbe che “Gravity” rappresenta un perfetto esempio di fiero heavy americano, un genere che spesso si affida alla capacità tecnica dei suoi esecutori a discapito di quella linearità – almeno in ambito power – che si apprezza dalle nostre gioiose parti. Effettivamente la prima traccia fatica a fissarsi nella memoria, con voce e pianoforte che sembrano lottare per un posto al sole: entrambe le parti sono meritevoli di lode e, in particolare, Boals si conferma interprete capace di acuti e presenza notevoli. Allo stesso tempo, la scelta di mettere nelle mani di un episodio così convoluto la prima impressione è quantomeno coraggiosa, e potrà con le stesse probabilità invogliare alcuni a proseguire l’ascolto ed altri a dire che no, questi otto minuti così progressive e confusi non fanno per me. Dal secondo episodio in poi, complice anche un accorciamento delle durate, il disco sembra trovare maggiore coesione, nonostante la perdurante assenza di elementi di presa più immediata: minuto dopo minuto gli aspetti progressivi e neoclassici, che spesso si affidano al pianoforte di Kuprij ed a repentini cambi di tempo, si fanno sempre più spazio, con “Ring Of Fire” che assume le forme di un disco complesso che vorrebbe tanto assumere le fattezze di una vera metal opera. Purtroppo dal punto di vista compositivo c’è un tratto, quello dell’eccessiva frammentazione delle parti, che fagocita allo stesso tempo potenza, impatto ed incisività.

Analizzato nelle sue componenti minime il disco di Boals offre momenti pregevoli, come l’evoluzione strumentale di “Storm Of The Pawns” o l’introduzione atmosferica di “Another Night”, ma – pur con tutte le attenuanti progressive del caso – sono rari i casi nei quali questo quinto disco sembra poter vivere di luce propria. Accade invece più frequentemente che a momenti relativamente noiosi si contrappongano brevi guizzi (anche grazie al lavoro di un generoso Lonobile), secondo un’alternanza che sulle prime consola, ma poi finisce con lo stancare inutilmente l’ascoltatore. E non sono nemmeno di aiuto le linee vocali, totalmente prive di una qualche musicalità (“Melanchonia”), del tutto monocordi e dimenticabili anche in occasione di una title-track (“Gravity”, appunto) e chiaramente messe lì giusto per completare l’insipido pacchetto anche quando, come nel caso di una ballad (“Sky Blue”), un minimo di cuore ce lo saremmo aspettato. Va da sé che in un quadro così preoccupante anche certi intermezzi finiscono con il suonare un po’ pretenziosi, quasi volessero impreziosire – con la loro supposta e ricercata eleganza – un prodotto che di elegante e raffinato possiede alla fine ben poco.

Con “Gravity” i Ring Of Fire provano una seconda volta a far parlare nuovamente di sé, ma lo fanno con un disco anacronistico, piatto e prodotto in modo davvero scolastico (“King Of Fools”, ma perché?). Un disco che parla soprattutto a se stesso, che rivanga sterilmente nel passato e che non solo non aggiunge nulla al già detto, ma rischia perfino di impattare negativamente su quello che poteva essere, almeno, un buon ricordo. Se le radici american heavy sono solide e sbandierate con giustificato orgoglio, il modo frettoloso e talora confuso in cui tutto è stato ricucito condanna questo lavoro a sopravvivere in un non-luogo livido e poco raccomandabile, sospeso tra la fine degli anni novanta e tutte quelle espressioni moderne che, con maggiori sensibilità ed umiltà, hanno saputo intercettare il gusto moderno e strappare almeno un paio di ascolti interessati.

Marco Soprani

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Folgorato in tenera età dalle note ruvide di Rock'n'Roll dei Motorhead (1987), Marco ama fare & imparare: batterista/compositore di incompresa grandezza ed efficace comunicatore, ha venduto case, lavorato in un sindacato, scritto dialoghi per una skill di cucina e preso una laurea. Sfuggente ed allo stesso tempo bisognoso di attenzioni come certi gatti, è un romagnolo-aspirante-scandinavo appassionato di storytelling, efficienza ed interfacce, assai determinato a non decidere mai - nemmeno se privato delle sue collezioni di videogiochi e cuffie HiFi - cosa farà da grande.

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