“The World We Left Behind” (i dettagli): un titolo pesante e significativo per l’epitaffio di una band che ha lasciato un segno indelebile nella scena USBM, per quanto definire i Nachtmystium semplicemente “black metal” sia alquanto riduttivo.
Nelle parole di Blake Judd (leggi QUI il comunicato), il progetto giunge al suo definitivo tramonto e questo album sembra porsi come una sorta di testimonianza postuma della band e soprattutto del suo leader, del quale sembra contenere molto a livello personale. Non è dato sapere se siano stati i guai giudiziari in cui il musicista è incappato lo scorso anno a portare a una simile decisione, ma voci sullo scioglimento dei Nachtmystium si rincorrevano in rete già da tempo, prima confermate e poi smentite.
Fatto sta che siamo arrivati al canto del cigno, un album al solito grande nei contenuti lirici e soprattutto nella musica, quella materia astratta che il gruppo ha saputo evolvere e plasmare in maniera riconoscibile e fuori dagli schemi in quasi quindici anni di carriera. “The World We Left Behind” appare già diverso dalla sua copertina, di un rosso accesso e con una figura femminile a seno nudo che richiama più un immaginario seventies piuttosto che il metal estremo, dal quale il gruppo comunque non si distacca, sebbene lo rielabori con inconfondibile carattere. Il disco sembrerebbe appartenere a Blake e alla volontà di mettere a nudo la propria esistenza in una visione retroattiva, con gli altri musicisti a fungere più da gregari, sebbene il loro contributo non sia affatto da sottovalutare (tra gli altri, sono della partita il bassista John Porada dei Terminate e il batterista Sam Shroyer degli Hate Meditation).
L’opener “Intrusion”, nella sua solennità, apre ai ritmi furenti di “Fireheart”, episodio veloce e compatto che non nasconde però un refrain indovinato, presentandosi come un inno ricco di enfasi. “Voyager” (che potete ascoltare QUI) è decisamente più cangiante e dai toni sperimentali; cupa e sferzata da abrasivi tocchi sintetici, lascia emergere zone di malinconica melodia. “In The Absence Of Existence”e la titletrack appaiono come due tra i brani più ricercati e introspettivi, dotati entrambi di un refrain ancora efficace per quanto non si possa certo dire che i Nachtmystium vogliano essere compresi ad un primo ascolto. Gli episodi sono pregni di plumbea sofferenza, la voce di Blake è particolarmente espressiva e i pezzi si muovono tra lisergici rallentamenti e frustate chitarristiche in chiave black. “Epitaph For A Dying Star” è il congedo definitivo e contiene tutto ciò che i Nachtmystium sono stati, sono e (noi lo speriamo) saranno ancora. Il brano è una lunga suite che muove su scenari siderali dove sono disturbate le influenze pinkfloydiane della band, tra emozionanti cori esoterici e momenti di muscolarità.
Una nuova opera di grande valore e se davvero si tratterà dell’ultima creatura del gruppo, Blake Judd e soci lasciano il palco a testa alta.