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Rotting Christ – Recensione: The Heretics

Il nuovo disco dei Rotting Christ lascia più di un dubbio in chi ascolta. Dubbi che sembrano nascere dalla struttura delle canzoni, dallo “scheletro” nudo di una manciata di brani che mostrano l’ispirazione dei greci in difficoltà più di una volta.

L’heavy metal dei nostri è ormai sintesi tra tensioni dark e scorie di un passato black metal che ancora brucia la cenere.

Il primo impatto che lascia “The Heretics” è quello di un disco lugubre, cupo, con idee già sentite e che cerca di riempire il vuoto compositivo con che appare determinante nel far scricchiolare gli oltre 40 minuti di musica che provengono dalla Grecia. Sakis & Soci sono ben oltre il limite psicologico dei 10 album, sono una band ormai “storica” del settore e ben  conoscono le dinamiche del mercato, che impongono uscite costanti nel tempo per evitare di finire nel dimenticatoio delle nuove generazioni.

Ma è proprio questo l’errore dei greci (e di molte altre band, sia chiaro), perché quando l’ispirazione mostra il passo come in questo disco, non c’è atmosfera o mestiere che tengano per salvare le sorti di una manciata di canzoni a tratti profondamente deludenti. “In The Name Of God” è il peggiore biglietto da visita possibile: compatta ed aggressiva, ma solo di facciata perché poco riesce a trascinare chi ascolta nonostante lo spirito battagliero.

C’è però del buono in “Heaven & Hell & Fire”. Decisione, atmosfera ed interessante progressione melodica. Accattivante per il buon mix di soluzioni contenute all’interno. Ben riuscita, ma in un disco livellato verso l’alto sarebbe stata una delle più “canoniche”.  Sensazioni che poi svaniscono nella tremendamente noiosa “Hallowed Be Thy Name”, che con i suoi tempi lentissimi ed i cori in lontananza cerca di giocare sull’impatto epico. Tanti sbadigli e poca incisività.

Stesso discorso per “Dies Irae” che si innerva attorno al solito riffone monolitico per poi sfociare in una timida apertura melodica che non giova avvitando la composizione verso la prevedibilità. “I Believe” invece prova a mischiare le carte, spiazzando l’ascoltatore con una canzone recitata in greco, ma il risultato è deludente.  Ancora una volta.

Non servono le tante citazioni colte (Milton, Voltaire e Poe solo per tirare fuori quelle più evidenti), perché se lo sfoggio di cultura si comporta da “arma da distrazione di massa”, allora il gioco non vale la candela e finisce per annullare l’impatto sperato dai nostri. Gradevole “The Voice of the Universe” , dove troviamo Ashmedi dei Melechesh (forse la canzone con più verve del disco, ma anche questa senza accelerazioni o sfuriate)  ed un timido sorriso ricompare dopo diverso tempo.

Tutto da bocciare? No, perché qualcosa di buono nel disco c’è nonostante tanta prevedibilità (la conclusione con “The Raven”, per esempio), passaggi che però non bastano a dare una spinta decisiva a “The Heretics”.  Il mestiere non sempre salva, ed i pochi punti positivi di questo album vengono affondanti in un mare di banalità.

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