Un violoncello oscuro ad introdurre il nuovo lavoro dei The Crown “Cobra Speed Venom”, ed è un bel ritornare perché i nostri svedesi – pur non inventandosi niente di stupefacente – piacciono. Nella nicchia del loro death-thrash si muovono con sicurezza e precisione. Dopo anni di dischi non del tutto a fuoco i nostri riescono a rispolverare quell’attitudine smarrita da qualche parte ad inizio millennio.
Tanta radice “Metallica” (di nome e di fatto) thrash, carta vetrata “made in Göteborg” e qualche scoria punk-hc. Ecco il mix che i nostri 5 da Trollhättan, Svezia, sono riusciti a costruire dopo qualche anno di smarrimento. A dimostrazione di questa ritrovata compattezza ecco la riuscita “Iron Crown” dove sono evidenti tutte le influenze dei nostri.
Bene “In The Name Of Death”, dove i nostri sembrano essere un gruppo scan-rock sotto anfetamine. Attitudine da vendere per una canzone che ricorda i tempi andati rilanciando gli svedesi. Sempre ad alti livelli la martellante “We Avenge!”, che sembra quasi citare gli ultimi Dissection di Jon Nödtveidt. La title-track è invece pura furia. Un riff incastrato uno dietro l’altro, con una band che riesce a legare diversi umori in funzione della canzone più battagliera del lotto. Piccola curiosistà: sarà forse la senilità o l’apparato uditivo in panne, ma durante gli ultimi secondi della canzone mi è sembrato di cogliere la linea melodica di “Aerials” dei System Of Down. Citazione? Casualità? Non ne abbiamo la più pallida idea, ma funziona bene e tanto ci basta.
Debole invece “World War Machine”, che cerca di caricare di groove una canzone senza mordente. Come un cane con la museruola in questo casa. Peccato perché il bridge ed il solo sono davvero ben riusciti.. Un piccolo inciampo evidentemente, perché con la successiva “Necrohammer” (titolo e testi degni di altri tempi) le cose si rimettono sulla carreggiata giusta ed i nostri riprendono a macinare riff.
Si va verso la fine, ed i nostri non sembrano voler diminuire i giri del motore. “Rise in Blood” mette in mostra il drumming di Henrik Axelsson. Con “Where My Grave Shall Stand” i nostri riescono a trovare una strada complessa e meno “ordinaria”: un mid tempo oscuro e disperato che cresce ascolto dopo ascolto. “Piccola” particolarità la canzone è strumentale, ma questo non incide minimamente sulla validità di questa manciata di minuti. Ultimo giro di giostra con “The Sign Of The Scythe”, che parte quasi doom ma che poi esplode in un vortice di riff convincente ad opera di Marko Tervonen e Robin Sörqvist.
Nonostante una certa staticità di fondo i The Crown sono riusciti a sopperire alla poca creatività con una robusta dose di ignoranza e concretezza. Mai tra le prime linee dell’heavy metal, ma nel mezzo a sgomitare in mezzo ai fan. Ben fatto.