Recensione: Ten

Quando si è dotati di un ugola dal timbro inimitabile e dalle capacità d’estensione di Michael Sweet è difficile immaginarsi che da un album solista esca fuori qualcosa di meno che eccellente. Ed in effetti il nostro ha sempre soddisfatto le aspettative di chi da ormai tanti anni lo segue con fedeltà. Una regola che non viene meno con “Ten”, titolo che prende ovviamente ispirazione da dieci comandamenti, ma che evidenzia anche come questo sia il decimo album del cantante americano (contando anche i due in compagnia di George Lynch). Come per le recenti uscite della band madre (gli Stryper, per quei pochi che non avessero dimestichezza con la carriera del signor Sweet) anche in questo album solitario si nota un certo indurimento delle sonorità, che fin dall’iniziale “A Better Part Of Me” spingono pesantemente sia sulla potenza del suono che sul taglio metal tradizionale delle composizioni. Non mancano di certo le consuete aperture melodiche, ma di media l’album picchia abbastanza duro, almeno se paragonato ad altre uscite precedenti.

Forse non la miglior notizia possibile per i fan del melodic rock, ma di sicuro nell’insieme questo disco farà la gioia dei fan più accaniti sia dei vecchi Stryper che, più in generale, del metal americano degli anni ottanta. Stilisticamente infatti assistiamo ad una carrellata che prende a piene mani dalle influenze più prevedibili per chi ha cominciato a produrre musica heavy negli U.S.A. durante la prima metà degli anni ottanta, siano essi i vecchi Zeppelin/Purple/Whitesnake o band più canonicamente heavy metal come Dio o Judas Priest. Non di meno stiamo parlando di un artista che ha saputo sempre metterci il proprio marchio e anche in questo caso le linee melodiche e le parti vocali (per non parlare delle liriche) sono estremamente riconoscibili e, se siete amanti del nostro, sempre azzeccatissime.

L’album non si fa mancare nulla anche dal punto di vista delle collaborazioni, visto che praticamente ogni canzone vede un ospite, sia esso un chitarrista (esempio Jeff Loomis nella citata “A Better Part Of Me”) o, come nel caso di Todd La Torre per la speedy “Son Of A Man”, un cantante per un duetto da manuale. In ordine sparso ci sono anche Will Hunt (Evanescence), John O’Boyle, Joel Hoekstra (Whitesnake), Marzi Montazeri (Exhorder), Gus G. (Firewind) e Andy James. Una batteria ben fornita che serve comunque solo ad arricchire un piatto già gustoso di suo che vede canzoni semplici e non certo particolarmente originali, ma sempre di buon gusto e curate nel dettaglio. Particolarmente riuscita nel suo campo è ad esempio una ballata come “Let It Be Love”, un brano che ci riporta ai momenti più soft dell’hard rock anni ottanta e che di certo rappresenta una delle rare eccezioni in una scaletta che vede anche canzoni come la pesante “Lay It Down” o la lenta ma scura “Ten”. Semplicemente un buon disco, ricco di belle canzoni e del talento di un musicista/interprete che rimane eccezionale.

Riccardo Manazza

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Incapace di vivere lontano dalla musica per più di qualche ora è il “vecchio” della compagnia. In redazione fin dal 2000 ha passato più o meno tutta la sua vita ad ascoltare metal, cominciando negli anni ottanta e scoprendo solo di recente di essere tanto fuori moda da essere definito old school. Il commento più comune alle sue idee musicali è “sei il solito metallaro del cxxxo”, ma d'altronde quando si nasce in piena notte durante una tempesta di fulmini, il destino appare segnato sin dai primi minuti di vita. Tra i quesiti esistenziali che lo affliggono i più comuni sono il chiedersi il perché le band che non sanno scrivere canzoni si ostinino ad autodefinirsi prog o avant-qualcosa, e il come sia possibile che non sia ancora stato creato un culto ufficiale dei Mercyful Fate.

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