Dopo aver dato alle stampe un colosso musicale come “Portal Of I” (la recensione), le aspettative maturate verso il nuovo studio album degli australiani Ne Obliviscaris erano inevitabilmente altissime. “Citadel” (ascolta QUI l’album) non riesce però a ripetere fino in fondo quel piccolo miracolo musicale, pur essendo un disco assolutamente ben fatto e al di sopra della media.
Cosa è successo ai nostri geni australiani? Non abbiamo una risposta precisa. Da un lato forse viene a diminuire l’effetto sorpresa (è fisiologico), dall’altro “Citadel” suona più lineare e per certi versi fruibile rispetto a un debut anarchico e straordinariamente omogeneo nonostante la sua ricchezza di elementi. Una ricchezza che non viene meno se consideriamo come anche “Citadel” viva di un intenso extreme progressive metal che alterna momenti tirati e di inaudita ferocia a parti melodiche suadenti basate su connubi con jazz e musica classica, ma nella sua totalità appare più lineare e snello rispetto al predecessore.
I brani sono soltanto tre, divisi poi in più parti e movimenti e le esecuzioni sono in qualche modo costruite in maniera più semplice. “Portal Of I” a nostro giudizio lasciava molto più spazio all’improvvisazione e alla duttilità. Si comincia con “Wyrmholes”, prima parte della suite “Painters Of The Tempest”, una introduzione strumentale dove un accompagnamento classico e wagneriano nella sua enfasi, lascia poi spazio al violino di Tim Charles e a disturbanti rumori industriali sul finale. La seconda parte “Triptych Lux”, a sua volta divisa in tre movimenti, è il brano che si può prendere come esempio per capire il modus operandi adoperato in tutto l’album. Qui troveremo passaggi violentissimi dove emerge la natura estrema del gruppo, le chitarre si prodigano in cascate di riff cangianti ma taglienti, la sezione ritmica è a dir poco tellurica e su tutto domina il potentissimo growl del vocalist Xenoyr. In questo scenario intervengono più volte riferimenti al progressive di scuola classica anni’70, con gradevoli parentesi di atmosfera, mentre il violino si adagia su entrambe le anime, accompagnato dalla voce pulita di Tim Charles.
Una formula personale e ormai resa propria (prendiamo le distanze dal paragone che spesso viene fatto con gli Opeth, le due realtà sono assolutamente distinte) che si ripete anche in “Pyrrhic”, che insiste più sul versante estremo e le due parti di “Devour Me, Colossus”, equilibrate e toccate da un finale esaltante dove le due voci di accompagnano e sovrappongono. In tutto questo notiamo come l’ordine e l’orecchiabilità restino comunque elementi indispensabili all’economia del sound.
Comunque un buon disco questo “Citadel”, curato, gradevole in tutta la sua durata e ovviamente eseguito con doti tecniche non comuni. Il problema è forse da vedere nel suo aver dovuto raccogliere l’eredità pesante di un grande lavoro difficile da ripetere.