Lo fecero davvero grande il botto, i Quiet Riot nel 1983, con quella “Cum on Feel the Noize” capace non solo di fare di Metal Health un debut-album (almeno per questa nuova incarnazione) dei record (primo singolo a raggiungere la Top 5 di Billboard e primo album heavy-metal a raggiungere la prima posizione), ma anche di portare all’attenzione di un mercato ampio sonorità ardite, fino ad allora confinate in territori più polverosi e ristretti. Prima di mettermi all’ascolto di “Hollywood Cowboys”, giusto per entrare nel mood, ho voluto rispolverare proprio quel singolo, ma nella versione – più swing ma ugualmente potente, corale e sanguigna – che gli inglesi Slade partorirono dieci anni prima. Ricavando l’impressione che quella interpretazione conteneva già tutto il necessario per sfondare, ad eccezione di un pubblico musicalmente pronto, numericamente ampio e che fosse possibile sollecitare/stimolare attraverso un nuovo medium (il video musicale). Alla canzone i Quiet Riot diedero contesto ed attitudine, storia e tratto distintivo, legittimando l’operazione con una carriera lunga 34 anni che li avrebbe visti produrre 14 album ed un numero consistente di singoli.
Nonostante il consistente pedigree, il tributo migliore che si possa riservare ai grandi nomi è quello di ricontestualizzarli, attualizzandone lo sforzo e valutando la capacità di una band di mettere a frutto l’esperienza per produrre qualcosa che suoni fresco, stimolante e di classica modernità. Da questo punto di vista “Hollywood Cowboys” si dimostra un lavoro interessante, in grado di attingere a sonorità classic rock rinvigorendone l’impatto: le linee vocali di James Durbin, finalista di American Idol e nel frattempo già sostituito da Jizzy Pearl degli indimenticati Love/Hate (“Blackout In The Red Room”, “Wasted In America”), sono graffianti e di convincente malinconia, così come il drumming di Frankie Banali – unico componente ad aver suonato su tutte le release della band, qui anche in veste di produttore – che vivacizza ogni traccia con uno stile contaminato e brillante che si potrebbe collocare stilisticamente nei primi anni del ventunesimo secolo. La circostanza che chitarra e basso facciano da onesti comprimari, qualcuno direbbe “all’australiana”, aiuta ad immaginare la direzione asciutta intrapresa dalla band californiana, tradizionalmente poco avvezza a soluzione barocche così come ad arrangiamenti che complichino inutilmente l’ascolto, tradendone in fin dei conti la natura.
Tra esperimenti frettolosamente troncati (“Change Or Die”) e trascurabili ricreazioni blues (“Roll On”), i Quiet Riot del 2019 si mantengono a rispettosa distanza dalle traboccanti, pirotecniche energie degli esordi, comunque capaci di portare a casa senza patemi un pareggio che muove la classifica, grazie ad un disco certamente non elaborato e forse vittima di una line-up poco stabile, che dà un senso al suo percorso creando un tris di buone occasioni (“Last Outcast”, “Arrows And Angels”, “Wild Horses”) ma al quale manca – per indugiare nella metafora calcistica – la punta in grado di fare gol. Se la struttura di “Hollywood Cowboys”, fatta di riff semplici, cori piacevolmente poco ammiccanti e sporadiche accelerate (“The Devil That You Know” abbozza un futuro stuzzicante e possibile pur nel suo timido minutaggio, mentre “Insanity” arriva al traguardo spompata soprattutto di idee), costituisca l’asse portante di un disco coerente e di genuini intenti, o piuttosto il lavoro che ci si poteva esattamente aspettare, non può essere che l’ascoltatore a stabilirlo, mediando come sempre tra i propri gusti, la conoscenza del percorso artistico e le aspettative che questi ed altri – squisitamente soggettivi – elementi concorrono a generare. “Hollywood Cowboys” è in definitiva una bella istantanea che coglie la resiliente band di Los Angeles nel momento: senza poggiarsi sugli allori né porre fondamenta curiose per un’elaborazione futura, questo disco è allo stesso tempo forte e vittima della sua astratta bidimensionalità.