Recensione: Little Bang Theory

“Produttore, arrangiatore, editor, corista e vocal coach”, questo recita il profilo LinkedIn di Marco Sivo, musicista a tutto tondo già al lavoro – soprattutto in veste di compositore e corista – su diverse produzioni internazionali di Frontiers Music, tra le quali possiamo ricordare Gioeli-Castronovo, Lovekillers e Sweet Oblivion. Quello dei Poison Rose è dunque un progetto pensato principalmente per portare alla ribalta il talento di questo artista, affiancondogli per l’occasione una formazione tutta italiana che vede gli esperti Andrea Seveso ed Aldo Lonobile alle chitarre, Alessandro Del Vecchio al basso ed Edo Sala alla batteria. Composto a più mani dagli stessi Sivo e Del Vecchio insieme a Pete Alpenborg, Brett Jones, Riccardo Canato e Stefano Mainini, “Little Bang Theory” è dunque un disco di debutto che si propone di andare qualche metro al di là del semplice progetto in studio: la sua missione è infatti quella di riportare al timone un artista italiano che ha ricoperto il ruolo di frontman per l’ultima volta nel 2004, quando suonava prog con i Time Machine.

Quello dei Poison Rose è il classico hard-rock buono per tutte le stagioni, forte di quella qualità media che molte delle recenti produzioni Frontiers esibiscono con disarmante scioltezza: in particolare, la militanza di alcuni dei musicisti in band come Sunstorm, Secret Sphere ed Edge Of Forever spinge “Little Bang Theory” verso quei lidi densi e corali che rappresentano un po’ il tratto distintivo di queste formazioni e – se così si può dire – del modo di suonare metal moderno in Italia. Si tratta di un genere che non sempre brilla per originalità (“Hearts Beat Loud”) ma che ha imparato a nascondere i suoi limiti con una considerevole dose di tecnica, con l’affinamento pignolo dei suoi meccanismi (“Set Us Free”), con un affiatamento tra musicisti probabilmente favorito dalle dimensioni relativamente contenute della scena. Il fatto che molti dei nomi coinvolti siano in definitiva sempre gli stessi preclude da un lato la possibilità di esplorare l’ignoto, ma al tempo stesso offre buone garanzie circa il risultato di queste operazioni. Un’ulteriore caratteristica di questo rock è un bel senso di pienezza (“Your Eyes Again”), di relativa complessità che ben si presta ad un ascolto anche più critico ed attento (“All Along The Way” è interessante): un punto a favore di un modo di fare musica che certamente non rifugge gli elementi di più facile presa (“Devil”) ma che al tempo stesso sa elaborare, costruire ed alzare l’asticella grazie a produzioni generalmente impeccabili. Gli episodi che soffrono di più, da un punto di vista della personalità e della resa generale, sono quelli nei quali la componente ritmica passa in secondo piano per cedere il posto all’introspezione ed alla melodia: in un disco nel quale la manifestazione tecnica tende a prevalere, una ballad come “Eternally, Wild And Free” fatica un po’ a trovare la posizione in campo, come quei giocatori degli sport di squadra che non partecipano mai all’azione perchè troppo bravi – o troppo scarsi, a seconda – rispetto agli altri.

L’impressione più bella che si ricava dall’ascolto di “Little Bang Theory” è che la sua missione può dirsi riuscita, senza esitazioni: tutti i brani dell’album appartengono alle duttili corde di Sivo (“Survive To You”), che in cambio li interpreta con quel mix di melodico & graffiante alla Tony Harnell che potremmo ascoltare per ore (“Older Now”). L’altra faccia della medaglia è che, concentrati sull’organizzazione di questo piacevole showcase, si sono lasciate in secondo piano le aspettative che tanti ascoltatori ostinati riservano ai nuovi progetti, agli album di debutto ed alle novità in generale. Difficilmente canzoni come “River Of Dreams” o “Better Life” inarcheranno sopracciglia, scuoteranno gli animi e faranno scendere lacrimucce, finendo col dare a tutto il disco un sapore molto medio e fin troppo delicato. Prodigo di informazioni ma avaro di emozioni, il primo lavoro dei Poison Rose è un prodotto da curriculum vitae che sceglie di far bene una cosa, ed una cosa sola. Di per sé non si tratta di un risultato disprezzabile, al contrario, ma la sensazione è che da cinque eccellenti musicisti italiani – al lavoro per un’etichetta italiana, ancor prima che internazionale – ci si possa aspettare un po’ più di coraggio, di sfrontatezza e di cuore. Daje.

Marco Soprani

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Folgorato in tenera età dalle note ruvide di Rock'n'Roll dei Motorhead (1987), Marco ama fare & imparare: batterista/compositore di incompresa grandezza ed efficace comunicatore, ha venduto case, lavorato in un sindacato, scritto dialoghi per una skill di cucina e preso una laurea. Sfuggente ed allo stesso tempo bisognoso di attenzioni come certi gatti, è un romagnolo-aspirante-scandinavo appassionato di storytelling, efficienza ed interfacce, assai determinato a non decidere mai - nemmeno se privato delle sue collezioni di videogiochi e cuffie HiFi - cosa farà da grande.

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