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Phantom Elite – Recensione: Blue Blood

Pensato dal produttore Sander Gommans, quello dei Phantom Elite è un progetto prevalentemente olandese all’insegna del symphonic, progressive e heavy metal che riunisce su un ideale palco la cantante ed attrice brasiliana Marina La Torraca (Exit Eden e vocalist per gli Avantasia di Tobias Sammet), il chitarrista e bassista Max van Esch ed infine il batterista Joeri Warmerdam. Con un debutto alle spalle datato 2018 (“Wasteland”) e “Titanium” a seguire (2021), possiamo quindi parlare di una realtà già rodata, che non solo ha progressivamente affinato stile ed idee negli anni, ma che ha anche avuto modo di portarle in giro per l’Europa con un tour che ha sicuramente cementato la sinergia tra questi tre artisti e che, tra pochi giorni, vedrà compiersi il suo secondo atto – attraverso oltre dieci paesi – per promuovere questo nuovo lavoro. Nonostante una presentazione abbastanza asciutta da parte di Frontiers, la band sta costruendo un seguito attivo ed affezionato sui social, grazie ad una presenza contraddistinta da un’immagine curata, aggiornamenti costanti ed un rapporto amichevole con i fan: la sensazione è quella di trovarsi al cospetto di una realtà carica di entusiasmo, e la curiosità di constatare se questo piglio abbia saputo o meno tradursi in un buon disco non vede l’ora di essere soddisfatta con il primo ascolto di “Blue Blood”, terzo album che in realtà marca anche – a testimonianza di una visibilità in crescita – il debutto dei Phantom Elite sulle nostre pagine.

Phantom Elite - "Black Sunrise" - Official Animated Video

La formazione a tre non faccia pensare a nulla di scarno, minimalista o vagamente essenziale: al contrario, l’impatto degli olandesi è decisamente opulento, con la voce della cantante sudamericana ben sostenuta da un drumming pienissimo (“This Sick World”), orchestrazioni e tanta elettronica (“Apex”) che a tratti mi ha ricordato, pur nella loro versione meno interessante, persino Garbage e Sonic Syndicate. Per quanto questa pienezza non sia essa stessa indice della qualità di un disco, si apprezza come – nel caso dei Phantom Elite – il tutto sia assemblato con cura, grazie ad una produzione azzeccata che esalta soprattutto voce e sezione ritmica. Proprio questa scelta restituisce la dimensione di un album che è soprattutto spirito e nervo, impatto e nevrotica occupazione degli spazi, possibile indice di un songwriting improntato ad una freschezza ad oltranza non ancora pronto ad affrontare le sfide intime delle pause, delle melodie e dei silenzi. Riconoscere la natura sparata di “Blue Blood” non impedisce comunque di godere dei suoi interessanti intrecci, della sua energia profusa a piene mani, della sua registrazione che diverte per il modo in cui le sue escursioni dinamiche stresseranno i vostri altoparlanti, costringendoli in più di un’occasione ad inutili straordinari (come nel caso di “Blue Blood” ed i suoi quasi otto ed inspiegabili minuti). Se però le considerazioni tecniche/ritmiche prendono il sopravvento, significa probabilmente che a questo disco manca ancora un po’ di cuore per diventare una proposta personale e dotata di vera longevità. Che si tratti di una missione possibile, se non altro, lo confermano tanti buoni e recenti dischi, alcuni dei quali partoriti proprio nel nostro Paese. Qui la qualità dei brani sul piatto è davvero molto fungibile (“Daydark”, ma dai), uno vale l’altro e tutti valgono – a loro volta – come altro già offerto da altri in altri e precedenti anni.

Il terzo lavoro dei Phantom Elite conferma diversi tratti positivi del gruppo olandese: alle ottime capacità di Marina La Torraca (“Birdcage”) fanno infatti seguito un’impostazione ultrapimpante che intrattiene, finchè dura, con l’esuberanza da centro commerciale di tutti i suoi elementi moderni. La produzione è quanto di meglio il genere possa offrire, un paio di passaggi offrono un minimo di atmosfera che alimenta le speranze di un’ulteriore crescita (“Laid With Vines”, “Black Sunrise”) e la conoscenza della materia, facilitata anche dalla presenza del navigato Gommans alla console, è ferma e pressochè totale. L’ostinazione adolescenziale con la quale i tre percorrono questa sorta di senso unico stilistico (“Fragments”) finisce però con il tarpare le ali ad una formazione dalla quale, non solo ma anche in virtù degli anni che passano e le rughe che affiorano, sarebbe realistico aspettarsi anche qualcosa di meno diretto ed usa-e-getta, più meditato, laterale ed adatto ad affrontare le sfide del tempo e soglie di attenzione sempre più basse.

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