Oggi, nel Maggio più assurdo di cui abbiamo memoria, i Paradise Lost pubblicano il loro nuovo album; alcune settimane fa, in pieno lockdown, ne abbiamo parlato con il chitarrista Greg Mackintosh che, in una conversazione tra amici costretti in quarantena, ci ha raccontato i retroscena della nascita del disco, i simboli nascosti nella bellissima perla che è “Obsidian” e il suo punto di vista sull’industria musicale ai tempi del Covid-19, con una raccomandazione conclusiva perfetta per i tempi che corrono!
Ciao Greg e grazie per il tuo tempo! Innanzitutto, come stai?
Abbastanza bene, considerata la situazione. Tu come stai? In quale parte dell’Italia ti trovi?
Anche io nella tua stessa condizione! Abito vicino Milano, una delle zone più colpite…oggi è il giorno 46 di lockdown per noi.
46? Starai uscendo fuori di testa!
All’inizio sì, ma credo che dopo un po’ siano intervenute delle strategie di adattamento e ho iniziato a crearmi una routine quotidiana. Mi aiuta poter fare smartworking o esercizio in casa…
Capisco, noi siamo un paio di settimane indietro rispetto a voi e probabilmente non sono ancora arrivato a quel punto, perché non ho alcuna motivazione, trovo difficile anche mettermi addosso qualcosa che non sia il pigiama. Ormai ho perso ogni cognizione del tempo, non so nemmeno che giorno della settimana sia! Sai, è strano perché credevo che con tutto questo tempo a disposizione sarei stato molto produttivo, invece mi manca del tutto la motivazione. Poi il mio lavoro, e anche il mio esercizio fisico, ruota intono al fatto di poter salire sul palco, quindi…
Già, immagino che per te le cose siano un po’ diverse…ma nonostante tutto siamo qui a parlare di “Obsidian”, il nuovo album dei Paradise Lost! Ti va di introdurlo ai nostri lettori?
Certo, per chi non conosce i Paradise Lost, direi che è un disco a metà tra doom metal e gothic rock. A chi ci conosce e ha in mente “Medusa”, il nostro ultimo disco, direi invece che si deve aspettare un album abbastanza diverso. “Obsidian” è molto vario ed eclettico, più sofisticato di “Medusa”. Succedono molte cose in quest’album: qualcuno lo ha definito come una biografia musicale della band ed è una descrizione che mi piace molto. Non è stato intenzionale, ma nel disco sono confluiti elementi che si possono ritrovare nel corso della nostra intera carriera.
Il titolo “Obsidian” ha qualche significato particolare?
L’idea è venuta a Nick, che me ne ha parlato. All’inizio ci sembrava una bella parola e ne conoscevamo il significato, certo, ma non in maniera approfondita. Ci faceva venire in mente qualcosa di “vulcanico”. Poi abbiamo indagato nel simbolismo dell’ossidiana, che ricorre nel folklore europeo e nel simbolismo della storia e dell’iconografia pagana e pre-cristiana. E questi significati ci hanno anche aiutato nella creazione dell’artwork: avevamo già una mezza idea, ma la scelta del titolo ha orientato la cover verso una rappresentazione che richiama la storia anglosassone. Nella cover si vede anche la rosa di York, il simbolo dello Yorkshire, che è la parte dell’Inghilterra da cui veniamo. E in mezzo a questi simboli, è incastonata l’ossidiana.
Come hai detto anche tu, quest’album è davvero molto strutturato, con una serie di livelli sonori che si ritrovano fin dal primo pezzo “Darker Thoughts”, che personalmente adoro. Come definiresti il sound di “Obsidian”?
L’idea iniziale era di renderlo più diversificato rispetto al disco precedente e con il passare del tempo abbiamo iniziato a prendere strade diverse: una di queste, ad esempio, ci ha riportato al tempo della musica post punk degli anni ’80. In generale, molte delle tracce si collocano in una direzione musicale precisa, dal doom al gothic metal, ma ce ne sono un paio, tra cui anche “Darker Thoughts”, che sono nate quasi per caso. Se la riascolto adesso, non riesco ad identificare quale stile musicale avessimo in mente quando l’abbiamo scritta, e mi piacciono questi pezzi che nascono dalla sperimentazione. Quando abbiamo terminato di scrivere “Darker Thoughts”, abbiamo capito subito che non potevamo collocarla che in apertura del disco, per il suo essere così particolare, così divisa in due parti. Ci interessa molto capire cosa ne penserà il pubblico, alcuni probabilmente non arriveranno neppure a metà, altri la ameranno, e sono contento che ti piaccia. Personalmente è una delle mie preferite, perché è davvero qualcosa di diverso per noi.
E poi ci sono dei pezzi che affondano le loro radici nella scena goth degli anni ’80, come “Ghosts”. Cosa puoi dirmi di questa traccia?
Non stavo cercando di ricreare la scena goth dell’epoca, quella appartiene ad un tempo ormai passato, ma volevo recuperare alcuni elementi di ciò che mi ispirava in quegli anni. Il sound del pezzo è molto orientato al basso, al beat; la chitarra aggiunge un tocco etereo, molto atmosferico, come facevano le band gothic degli anni ’80. Ho lavorato molto sul suono delle chitarre: metà del disco è stato registrato in studio con il nostro co-produttore, mentre ho registrato la restante metà nel mio studio casalingo, per avere il tempo di sperimentare con il suono delle chitarre, con diversi pedali, amplificatori e conseguenti effetti, per ottenere quel suono immateriale e unico che volevo. Dal mondo gothic, sono confluiti in “Ghosts” il beat, all’insegna di basso e batteria, questo particolare suono della chitarra e il chorus.
Qual è stato il processo creativo che ha portato alla nascita del disco?
Devo dire che è stato molto divertente. Un paio d’anni fa abbiamo iniziato ad adottare uno stile di songwriting un po’ diverso dal solito, prendendo spunto da un articolo che avevo letto su David Bowie. In pratica, Bowie scriveva alcune parole chiave su dei pezzi di carta e le lanciava sul pavimento: poi le raccoglieva a caso e metteva insieme dei concetti che potevano essere interessanti per lui, ma che nascevano in modo del tutto randomico. Mi sono chiesto se la stessa cosa si poteva applicare anche alla musica e così ho iniziato a scrivere dei piccoli passaggi musicali, di pochi secondi, che poi invio a Nick, chiedendogli di cantarci sopra con quattro, cinque stili musicali diversi, dal falsetto alla voce profonda, fino al growl. Lui me li ripassa e si crea un puzzle di migliaia di pezzi senza una chiara immagine: a questo punto non resta che unirli. Si tratta di uno stile di scrittura molto intuitivo e in un certo senso anche più veloce del solito, che porta a soluzioni a cui non avresti pensato all’inizio. Così abbiamo scritto l’intero disco in qualcosa come sei mesi e abbiamo ottenuto dei risultati davvero eclettici. Probabilmente, procedendo in modo tradizionale sarebbe stato più bianco o nero, mentre in questo modo abbiamo ottenuto delle sfumature interessanti. Per quanto riguarda la registrazione, ho registrato le parti di chitarra insieme a basso e batteria, mentre le parti vocali sono state registrate in uno studio diverso. Questo mi ha permesso di sperimentare con più soluzioni allo stesso tempo.
Nel corso della loro carriera, i Paradise Lost sono rimasti fedeli al proprio sound, ma senza mai avere paura di sperimentare nuove soluzioni e fare dei passi avanti, ed ora eccovi qui con una carriera trentennale alle spalle. Come descriveresti l’evoluzione della vostra band?
Come persone non siamo cambiati molto, ci sentiamo ancora dei bambini! Di certo siamo cresciuti come songwriters, abbiamo imparato molto e stiamo ancora imparando. Credo che in questo mestiere sia fondamentale continuare ad apprendere cose nuove e non perdere mai l’ispirazione. Hai ragione, nel tempo siamo cambiati: a volte mi ritrovo a criticare quelle band che si ripetono costantemente uguali, ma credo che sia fondamentale sperimentare ed essere curiosi di provare nuovi stili musicali, fa parte del processo di crescita. E come ti dicevo anche prima, in un certo senso tutti questi spunti sono andati a confluire in “Obsidian”.
In un’intervista, hai detto una cosa molto interessante: “è un bel momento per essere nei Paradise Lost”. Come mai?
Perché ci si sente davvero rilassati, pur con tutto quello che sta succedendo! Nel corso degli anni siamo rimasti insieme, siamo rimasti amici, condividendo lo stesso senso dell’umorismo, lo stesso approccio di chi non si monta la testa e ha i piedi per terra, molto indicativo dell’ambiente in cui siamo cresciuti, la classe operaia dell’Inghilterra del nord. Abbiamo imparato a lasciarci il giusto spazio, sappiamo quanto possiamo spingerci oltre con i nostri compagni di band e quando dobbiamo lasciar perdere. Nei primi anni del nuovo millennio abbiamo vissuto un momento difficile, ma adesso sappiamo misurare la pressione, sappiamo quando ridere e quando non farlo. E io specialmente, all’inizio avevo un approccio alla vita che era troppo serio…con il passare degli anni ho imparato a rilassarmi! Diciamo che nell’ultimo ventennio ho capito molte cose sulla natura umana, sui processi di accettazione e anche sulla necessità di ricorrere a dei compromessi.
Nonostante la situazione di emergenza, avete deciso di non posticipare l’uscita del disco, come stanno facendo alcune band in questo momento…
Sì, e non capisco come mai lo facciano. Se c’è una cosa che abbiamo imparato da tutto questo è che non abbiamo certezze, non sappiamo cosa succederà o quando finirà, se arriverà ad ondate, se ricominceremo con i live quest’anno o l’anno prossimo. E non vedo il motivo di posticipare l’uscita di un disco, soprattutto perché tutti sono chiusi in casa e l’arte, che siano film, musica, libri, è fondamentale per la sanità mentale delle persone; il lockdown è momento migliore per pubblicare un nuovo album, perché le persone non vedono l’ora di tenersi impegnate, assorbire qualcosa di nuovo. Credo che potrebbe avere un impatto sulle vendite, questo sì, ma è inevitabile per tutte le band travolte da questa emergenza. Credo che ora più che mai sia importante avere cose da fare: tutta la scena musicale, fan, promoter, band, dovrà avere molta pazienza.
Credi che quando tutto sarà finito la scena musicale dovrà fermarsi un attimo a riflettere e magari ripensare ad alcuni aspetti del business?
Sai, questo è un argomento davvero interessante, in questi giorni ne stiamo parlando spesso tra di noi, ma anche con il nostro management e la nostra etichetta, come credo che d’altronde stiano facendo molti altri gruppi. Credo che in molti, ai piani alti dell’industria musicale, stiano iniziando a pensare che questo sarà un cambiamento permanente, il che è spaventoso da un certo punto di vista, ma a cui bisognerà adattarsi. Io sono una persona abbastanza anti sociale, non certo il tipo da social media, e mi spaventa pensare che a causa di tutto questo dovrò diventarlo!
Ho visto molti cambiamenti nell’industria musicale nel corso degli anni e questo è senza dubbio il più grande, perché non solo le band, ma anche tutte le persone che ci stanno intorno, dovranno pensare a come far arrivare la musica al pubblico in senso generale; servirà di certo molto spirito di adattamento, ma potrebbe essere un punto di svolta anche permanente, chi lo sa.
Qual è la situazione dal punto di vista delle esibizioni dal vivo? State già pianificando qualcosa? Avete ricevuto qualche rassicurazione in merito?
Questo è un altro dei punti su cui non ci sono certezze. All’inizio pensavamo che l’emergenza sarebbe durata un paio di settimane e ci stavamo preparando ai festival estivi, ma ora sappiamo che anche i festival non ancora cancellati, lo saranno presto. Al momento ci stiamo ancora preparando per uno show di release del disco previsto per settembre e incrociamo le dita che possa tenersi, ma realisticamente, da quello che sento dai promoter, la scena live potrebbe sbloccarsi l’anno prossimo. Incrociamo le dita per la fine di quest’anno, ma sarà più probabile parlare di tour all’inizio del 2021. Come dicevo, dobbiamo tutti avere pazienza.
E alcuni potrebbero dire che la musica dei Paradise Lost è un’ottima colonna sonora per quello che stiamo vivendo!
In effetti abbiamo scritto molto su temi come la solitudine, essere intrappolati da qualche parte e cose del genere, tanto che potresti dire che siamo stati profetici! Ma se racconti qualcosa per 30 anni, credo che ad un certo punto possa anche verificarsi…alcuni mi hanno fatto notare che la nostra musica è perfetta per tutto questo, ma la verità è che dipende se questo genere ti piace oppure no. Personalmente, credo che soprattutto “Obsidian” sia all’insegna dell’evasione: in questo senso si sposa bene con l’emergenza, perché permette di prendersi una pausa dalla realtà.
Grazie mille, Greg, è stata una bellissima chiacchierata. Auguro tutto il meglio a te e alle persone che ami!
Grazie a te, Ilaria. Spero che non ti restino ancora molti giorni di lockdown, ma nel mentre cerca di rimanere mentalmente stabile e di non uccidere nessuno!
