Oz – Recensione: Forced Commandments

La carriera musicale degli OZ, fondati nel 1977, non può certo essere considerata folgorante. Dopo un debut album, “Heavy Metal Heroes”, non proprio memorabile, il quintetto finlandese pubblica nel 1983 “Fire in the Brain”, platter considerato, ad oggi, uno dei più significativi per quanto concerne lo stile della formazione nordeuropea (heavy classico dalle tinte rock che guarda alla NWOBHM, in primis Saxon). Le produzioni successive, invece, risultano stantie, ripetitive, prive di anima e sembra siano state assemblate con l’intento di voler cavalcare l’interesse suscitato dopo l’uscita del secondo disco. L’assenza di una qualità musicale sopra la media, insieme ad una line-up non proprio solidissima, decretano l’oblio per i finlandesi, che si sciolgono nel 1991. Il batterista Mark Ruffneck, vero motore della band, a distanza di 20 anni dallo split, tenta di rimettere insieme gli OZ, coinvolgendo, oltre ai due membri degli esordi, Ape De Martini alla voce e Jay C. Blade al basso, anche due nuovi musicisti. Il risultato è un altrettanto deludente lavoro dal titolo “Burning Leather”, una collezione che mescola qualche inedito, brani più datati ri-registrati e qualche brano totalmente nuovo. La quasi-reunion, una moda in voga già dalla fine degli anni ‘90, si è rivelata, di fatto, un vero fallimento. Ruffneck, nonostante tutto, non ha intenzione di appendere le bacchette al chiodo e, dopo l’ennesimo fiasco, rivoluziona totalmente la formazione assoldando giovani musicisti. I redivi OZ, per 4/5 nuovi di zecca, pubblicano nel 2017 l’ottimo “Transition State”.

Cosa aspettarsi, quindi, da questo nuovo “Forced Commandments”? I rivitalizzati OZ dimostrano nuovamente, come nel precedente full length, di non essere dei nostalgici bolliti (come quelli post “Fire In The Brain”) che tentano di ripetere determinati stilemi in maniera banale e derivativa. Intendiamoci, non ci troviamo davanti a nulla di particolarmente innovativo o originale: un heavy metal a tratti roccioso caratterizzato da riff diretti, melodie catchy che strizzano l’occhio all’hair metal (basta sentire i cori), richiami all’hard rock e una voce che non si limita ad imitare i grandi screamer del metal (non solo Biff Byford, quindi) e del rock. Quello che, però, distingue in positivo questo platter dalla produzione passata è l’approccio musicale: il songwriting, così come nel precedente lavoro, rimane di buon livello, risultando anche più vario e fresco di “Transition State”. Ad esempio, le componenti fondanti del sound quali heavy metal classico (Judas Priest e Accept) e NWOBHM (Saxon, ma non solo) risultano bilanciate da melodie americaneggianti, soprattutto nei refrain e nei cori. 11 brani in tutto (tra i quali ben 3 bonus track) che, pur mantenendo quasi sempre una ritmica più o meno simile (quasi tutti up-tempo e mid-tempo, tranne la cavalcata conclusiva heavy-power “Liar”), non annoiano, grazie all’esperienza e alla ritrovata personalità degli OZ. Tra gli highlight segnaliamo “Prison Of Time”, un mid-tempo dal riffing simil maideniano e dall’incedere folkeggiante, che cita la NWOBHM e anche i Running Wild;

la catchy “Switchblade Alley” a metà strada tra AC/DC e Saxon/Accept, dai cori hair metal syle; “The Ritual” up-tempo con una parte strumentale puntellata da passaggi dal sapore prog in stile NWOBHM (primi Maiden) e da una fugace melodia orientaleggiante. Degna di nota anche la più strutturata “Spiders”, rock oriented, caratterizzata da brevi cambi di tempo e da una parte centrale in cui il riff ricorda un certo neoclassical metal (non tanto nella velocità ipersonica dell’esecuzione, quanto nella costruzione) e da un’ispirata prova vocale da parte Vince Koivula, che cita Coverdale e Steven Tyler. In ultimo segnaliamo la bonus track “Diving Into The Darkness”, il brano più elaborato del lotto, che sintetizza al meglio le varie anime musicali degli OZ, dal rock più ammiccante, al metal, al neoclassical, ai passaggi prog, con, addirittura, un fugace passaggio doom nel finale. L’unico pezzo non proprio convincente è l’ordinaria power ballad “Long And Lonely Road”, ben suonata, ma forse un po’ troppo scontata.

Forced Commandments” è, dunque, un lavoro godibile, divertente, che si ascolta tutto d’un fiato. Non si può certamente parlare di “evoluzione”, ma, nonostante i 43 anni di carriera, gli OZ danno vita a un album che denota una certa maturità compositiva, figlia, oltre che di una ritrovata solidità e compattezza in termini di line-up, di una rinnovata passione musicale.

Etichetta: Massacre Records

Anno: 2020

Tracklist: 1. Goin' Down 2. Prison Of Time 3. Switchblade Alley 4. Revival 5. The Ritual 6. Spiders 7. Long And Lonely Road 8. Liar 9. Diving Into The Darkness (Bonus) 10. Break Out (Bonus) 11. Kingdom Of War (Bonus)

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