Gli Overkill sono nella ristretta cerchia di band che hanno vissuto all’ombra dei “big four” del thrash metal, pur non essendo in alcun modo inferiori in termini di idee e abilità. È impossibile non considerare album come “The Years Of Decay” tra i capolavori del genere. Quindi, giunti al ventesimo album, la band del New Jersey continua a proporre un thrash legato alle origini, che fa un cenno al metal classico, ma senza mai rinunciare ad aggressività e potenza. Certo, la voce di Bobby “Blitz” Ellsworth ha perso qualcosa in termini di estensione, ma recupera abbondantemente con un carisma e un piglio senza eguali.
Partiamo con “Scorched“, che mescola sonorità più classiche senza smarrire il target principale del thrash canonico. Il brano è piuttosto lungo, ma scorre via in modo molto gradevole grazie a qualche cambio di velocità molto ben azzeccato, mostrando il meglio del repertorio.
“Goin’ Home” è una canzone compatta e coinvolgente che, eseguita dal vivo, scalderà sicuramente il pubblico, facilmente coinvolgibile nei cori. La successiva “The Surgeon” lascia senza fiato per la velocità di esecuzione e la grande prova vocale. Rimaniamo sullo stesso tiro con “Twist of the Wick“, che ci incalza dall’inizio alla fine. Arriviamo carichi a metà dell’album, dove “Wicked Place” e “Won’t Be Comin’ Back” ,con le loro influenze classiche e ritmo coinvolgente ma più pacato, ci fanno prendere fiato, mantenendo però altissimo l’interesse.
“Fever” è una canzone molto particolare con una lunga introduzione e ricorda, per impostazione, alcuni brani solisti di Ozzy Osbourne, senza perdere però il marchio di fabbrica degli Overkill. Anche la successiva “Harder They Fall“, pur avendo tutti gli stilemi classici del thrash, ha un’atmosfera molto rock ‘n’ roll. Arriviamo in fondo con “Know Her Name“, un brano positivo ma non particolarmente memorabile, e la finale e divertente “Bag O’ Bones“, sostenuta da un ritmo coinvolgente.
In un soffio giungiamo alla fine dell’album e non sembra possibile siano passati più di 50 minuti: tutti i pezzi sono di ottima fattura, mantenendo un’unità di intenti pur essendo molto diversi tra loro. Un album che dimostra ancora una volta che i big del thrash non sono solo quattro.

Il disco è anche bello. Ma come ormai da anni la produzione ingenerale che comprime a dismisura la sorgente rovina il lavoro. In impianti hifi di medio livello si percepisce la piattezza e la pochissima dinamica. Certo se uno lo ascolta in cuffia ….ma ormai la loudness war imperversa e continua a rovinare il lavoro degli artisti. Sentirci 72 seasons: è quasi peggio