Che cos’hanno in comune il rapimento di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi, il record del mondo sui 200 metri di Pietro Mennea e la vittoria di Jody Scheckter con la Ferrari nel mondiale di Formula 1? Sono tutti avvenimenti successi nell’anno di grazia 1979. Sono passati appena quarant’anni, eppure sembra che stiamo parlando di un’altra epoca. Anche dal punto di vista musicale, le differenze sono moltissime. Sono gli anni in cui imperversa la Disco Music, con l’avvento prepotente sul mercato di nomi come Donna Summer, Village People o Bee Gees. Per quanto riguarda l’heavy metal, o i generi ad esso corollari, prima della grande esplosione degli anni ’80 però, si tratta di un anno molto interessante. Alcune band che nel giro di pochi anni diventeranno famosissime, come gli Iron Maiden, pubblicano i loro primissimi brani, mentre altre dalla carriera ormai consolidata, come i Led Zeppelin, stanno per arrivare ai loro ultimi colpi di coda. I Judas Priest danno vita a uno dei loro live album più significativi di sempre, mentre gli Aerosmith sembrano arrivati al capolinea. In questo speciale, suddiviso in due parti, abbiamo voluto ritrovare le luci e le ombre di questo anno così significativo. Il 1979 si potrebbe considerare come un anno abbastanza controverso, fatto sta che molti di questi album sono ancora impressi a fuoco nel cuore nei fan del metal di ogni parte del globo. Anche se, apppunto, a quarant’anni di distanza dalla loro uscita, sembra che stiamo parlando di un’altra epoca.
AC/DC – “Highway To Hell”
“Highway To Hell”, sesto studio album degli australiani AC/DC, è uno dei lavori di maggior successo della band (quindici milioni di copie vendute finora), insieme al successivo “Back In Black”.
Dopo i due ottimi “Let There Be Rock” e “Powerage” e grazie a estenuanti tour in giro per l’Europa, il quintetto guidato dai fratelli Young aveva già iniziato a costruirsi una discreta reputazione nel mondo del rock. Con “Highway To Hell” gli AC/DC ottengono la svolta definitiva: la band conquista grandissimi consensi oltre che nel vecchio continente anche in America. “Highway To Hell” conferma che i cinque australiani sono una band oramai rodata che, album dopo album, ha saputo costruire un sound inconfondibile ed inimitabile. Questo full length, oltre alla qualità intrinseca della musica, verrà ricordato anche per essere l’ultimo lavoro con Bon Scott al microfono.
Fra i tanti brani significativi di questo storico capolavoro annoveriamo la title track, una di quelle canzoni che ti entra subito in testa grazie a un riff azzeccatissimo e a un chorus trascinante in pieno stile AC/DC. Nessun intento “diabolico” né esplicito né implicito ispira il titolo di questa perla musicale. Molto più banalmente, durante i precedenti tour europei, un giornalista aveva chiesto come ci si sentisse a trascorrere la maggior parte del proprio tempo sempre in giro per concerti; “It’s a fuckin’ highway to hell”, aveva risposto Angus Young. La risposta cruda, irriverente, goliardica, ha dato ispirazione al titolo della leggendaria canzone. Straordinarie anche la sinuosa “Touch Too Much” e la veloce e aggressiva “Beating Around the Bush”. Degno di nota il brano “If You Want Blood (You’ve Got It)”, altro memorabile inno della band australiana. Il disco si chiude con la blueseggiante “Night Prowler”, brano lento e ricco di pathos, con un Bon Scott da brividi.
“Highway To Hell” è un disco che entra di diritto nell’olimpo del rock; nessuno può definirsi un appassionato di musica rock/metal senza aver ascoltato questo album almeno una volta nella vita. Pietra miliare (Carmelo Sturniolo).
ACCEPT – “Accept”
Ammettiamolo: l’omonimo debutto degli Accept non è certo un disco memorabile e non ha lasciato testimonianze tangibili in materia di immortali hit da best-of, piuttosto che di brani immancabili nelle setlist della band. La carriera di una delle più importanti realtà del metallo teutonico ha comunque inizio da qua, per cui abbiamo ritenuto giusto citare anche quest’album tra le uscite simbolo del 1979. Il platter è pienamente imbevuto del seminale hard rock in voga in quel decennio che stava ormai volgendo al termine: i tratti salienti del coriaceo heavy/power che renderà grande il gruppo tedesco ancora non spiccano e la voce di Udo non è al momento caratterizzante e al vetriolo come avremo poi modo di conoscerla, ma la capacità di Wolf Hoffmann di scrivere riff e pezzi vincenti comincia già a fare capolino. Fra brani trascinanti (“Tired Of Me”, “Take Him In My Heart”, “Free Me Now” ), altri un po’ meno (“Helldriver”) e ballate non certo irresistibili, però passabili (“Seawinds”), gli Accept archiviano in ogni caso la pratica del debutto in maniera dignitosa, fatta eccezione naturalmente per una copertina kitsch all’ennesima potenza. Mai come in questo caso, comunque, è il caso di dire che il meglio deve ancora venire! (Matteo Roversi)
AEROSMITH – “Night In The Ruts”
Più che per il suo valore artistico, “Night In The Ruts” è spesso ricordato come uno dei passi falsi più clamorosi della carriera degli Aerosmith, nonchè come il segno indiscutibile dell’inizio della parabola discendente che caratterizza il periodo tra la fine del decennio e la prima metà degli anni ’80. Registrazioni costantemente in ritardo, un clima appesantito dall’insuccesso del precedente “Draw The Line”, un tour iniziato quando ancora il disco non era stato registrato, e per finire la situazione critica dei Toxic Twins, con uno Steven Tyler in piena crisi da abuso di droghe e con Joe Perry che abbandona la band a metà delle registrazioni (fra l’altro dopo un litigio fra sua moglie e la moglie di Tom Hamilton, Terry). Tutti questi fatti incidono pesantemente sul valore dell’album, che pure non inizia male grazie a “No Surprize“, a “Chiquita” e alla accattivante cover di “Remember (Walking In The Sand)“. Del resto, è anche difficile trovare il valore di un album di nove pezzi, molti dei quali sono cover, per quanto ben eseguite e in linea con lo stile della band. Col senno di poi, si tende a guardare a “Nights…” come a un capitolo da dimenticare nella storia della band di Boston, anche se a ben guardare qualche buona idea resiste al tempo e lo stile della band, quell’hard rock gonfio di venature blues così caratteristico, è ancora chiaramente percepibile (Anna Minguzzi).
BLUE OYSTER CULT – “Mirrors”
Un classico (forse) minore, una storia “stramba” per Eric Bloom , Buck Darma & Soci quella chiamata “Mirrors”, album che flirta con i suoni di fine anni ’70. Certo, per tutti quelli abituati a farsi sanguinare le orecchie con “Astronomy” e terrorizzare da “(Don’t Fear) The Reaper” (vero Stephen King?), ascoltare le note quasi kissiane di “Dr. Music” piazzate in apertura di vinile poteva suonare come un sacrilegio. Ma il disco – oggi come allora – funziona, piace, nonostante sembri il tentativo dei nostri di andare “oltre” e provare l’assalto alla hit parade. Rimanendo però a metà della scalata. A quasi 40 anni di distanza dalla data di uscita, il disco si mostra per quello che realmente è: un caleidoscopio di intuizioni ed anime. Ma questa storia “stramba” è quindi anche sbagliata? No, affatto. Dategli una chance, ve ne innamorerete. E se nel disco sono contenuti due momenti di storia come “The Vigil” e “I Am The Storm” non credo sia un mero caso. Seconda nota di cronaca, “The Great Sun Jester” vede per la prima volta collaborare con la band un “tale” Michael Moorcock. Altro caso? (Saverio Spadavecchia)
DEF LEPPARD – “The Def Leppard EP”
Se il papà non avesse prestato 150 sterline a Joe Elliot per creare il primo EP dei Def Leppard 40 anni fa, forse la band storica inglese non sarebbe mai esistita. I cinque giovani britannici con il sogno di diventare rockstars hanno registrato e prodotto queste tre canzoni che compongono l’EP, di durata totale di 14 minuti, grazie anche all’aiuto della signora Elliot alla confezione del disco. I tre brani proposti sono stati registrati di nuovo per gli album successivi, e questo EP è più un elemento da collezione giudicando dalla scarsa qualità di produzione e registrazione, considerando anche la tabella discografica di proprietà della band. Con “Ride Into The Sun” Joe Elliott ci racconta come si lasci tutto il mondo indietro andando in giro con la sua ragazza con un brano abbastanza “catchy”. Segue “Getcha Rocks Off”, dove si distingue il talento dei chitarristi Steve Clark e Pete Willis, e infine “Overture” chiude questo primo tentativo discografico dei ragazzi di Sheffield. Questo è un brano di lunga durata che inizia con una parte acustica e cantato ad eco mentre prosegue con una parte più veloce ed elettrica per terminare allo stesso modo com’ è iniziato. Quando queste canzoni sono state trasmesse alla BBC il viaggio dei Def Leppard verso il successo è iniziato e nonostante gli enormi ostacoli che hanno avuto nei loro 40 anni di carriera continuano a essere in prima linea (Katerina Paisoglou).
JOURNEY – “Evolution”
Primo album con il classico ma rispettatissimo Steve Smith alla batteria in “Too Late” è subito la timbrica distintiva di Steve Perry ad aprire le danze per uno dei “classici” della discografia dei Journey e del melodic hard rock in generale con il fiocco posto dall’assolo del “boss” Neal Schon.
Si può sicuramente affermare che, a partire da questo album (anzi forse dal precedente “Infinity” a dirla tutta) iniziò il periodo di maggior successo commerciale per la band, che durerà almeno un decennio. L’andatura rimane quasi sempre compassata e s’innerva qua e là di sfumature di blues, come dimostra uno dei loro pezzi più famosi “Lovin’, Touchin’, Squeezin’”. Da non sottovalutare comunque l’apporto alle tastiere di Gregg Rolie come collante (anche vocale) ma è sempre Perry a svettare, superandosi su “Sweet And Simple”. Grandioso il groove di Smith su “Lovin’ You Is Easy” mentre altro pezzo da segnalare è sicuramente “Daydream”.
L’hard AOR nella sua versione più tradizionale ma anche seminale… insomma signori queste sono le basi (Alberto Capettini)!
JUDAS PRIEST – “Unleashed In The East”
Fra i numerosi capolavori usciti nel 1979 non ci sono solo album in studio, ma anche un live destinato a passare alla storia come uno dei più grandi della storia del metal. Parliamo ovviamente del leggendario “Unleashed In The East”, primo disco dal vivo in carriera per i Judas Priest. Registrato in occasione di alcune date giapponesi, a Tokyo per la precisione, del monumentale “Hell Bent For Leather Tour”, il live è una fenomenale testimonianza dell’incredibile stato di forma dei Priest di quegli anni, nonché una sorta di best-of della loro produzione targata anni ’70. Inutile citare un singolo episodio piuttosto che un altro, in questo platter non c’è una nota fuori posto e tutto fila liscio fin nei minimi dettagli: dalle devastanti esecuzioni di “Exciter”, “Running Wild” e “Sinner”, trittico che non lascia scampo posto subito in apertura, a classici immortali del calibro di “The Ripper” e “Victim Of Changes”, dalle personalissime cover di “The Green Manalishi” e “Diamonds And Rust” alle terremotanti “Delivering The Goods” e “Hell Bent For Leather”, poter ascoltare Rob Halford e compagni in concert in quell’anno costituisce un’esperienza davvero sublime. In questa nostra antologia di album che andrebbero studiati nelle scuole, largo spazio allora anche a una band che del tenere uno show dal vivo come si deve ha fatto una vera e propria arte. (Matteo Roversi)
KANSAS – “Monolith”
La grandeur che caratterizza l’incipit di “On The Other Side” mostra promettenti segnali di continuità di “Monolith” con il capolavoro “Point Of Konw Return”, in particolare con le conclusive “Nobody’s Home” e “Hopelessly Human”. Si tratta del sesto lavoro in studio dei Kansas, chiamati a mantenersi sui livelli stellari raggiunti on gli ultimi lavori. Ascoltandolo col senno di poi, “Monolith” porta, però, accanto alle tracce di genialità del passato, i primi sintomi di incertezza che porteranno al deludente “Audio-Visions” e con esso alla dissoluzione della storica line-up ancor qui composta da Walsh, Livgren, Ehart, Williams, Hope e Steinhardt. Alcuni brani, seppur con qualche sbavatura, recuperano le atmosfere che hanno reso magica la band: in particolare la dolce “Angels Have Fallen” o l’articolata “A Glimpse Of Home”. Diversi, però, purtroppo, sono anche gli episodi poco ispirati, a partire dalle divagazioni pop del singolo “People Of The South Wind”, che rendono “Monolith” un album altalenante, frutto forse anche delle indecisioni sulla strada da intraprendere dopo il successo commerciale (Giovanni Barbo).
KISS – “Dynasty”
Nel 1979 i Kiss erano all’apice della loro carriera: grazie all’enorme successo di album quali “Destroyer” (1976) e “Love Gun” (1977), la band è stata protagonista di tour strepitosi, con date quasi sempre sold-out. Dopo aver pubblicato i rispettivi dischi solisti in contemporanea, Paul Stanley, Gene Simmons e Ace Freheleydanno alle stampe “Dynasty”, settima prova in studio del combo americano, un platter controverso che ha segnato un drastico quanto affascinante cambiamento di stile. Registrata l’uscita di Peter Criss (sostituito da Anton Fig), i Nostri realizzano nove tracce caratterizzate da sonorità più orecchiabili, al passo con i tempi, in grado di inglobare e rielaborare le mode del momento. Complice la mano del produttore Vini Poncia, “Dynasty” si apre con due brani che esplicitano questa trasformazione: “I Was Made For Lovin’ You” e “Sure Know Something”, sono hit di incredibile successo, tormentoni capaci di scalare le classifiche di vendita come mai prima. “Dirty Livin”, “Hard Times” o la bella cover del brano dei Rolling Stones “2000 Man” sono episodi riusciti di un disco caratterizzato da un sapore più smaccatamente Pop, ritmiche inaspettatamente Dance e melodie dannatamente accattivanti. Difficile restare fermi sulle note di “Charisma” o non restare travolti dalle suggestive atmosfere di “Magic Touch”: nella sua interezza, “Dynasty” rappresenta una prova assolutamente positiva, fresca, figlia del grande intuito di un gruppo che non ha avuto paura di rinnovarsi e aprirsi al gusto dell’epoca. Fossero tutti così belli i dischi controversi! (Pasquale Gennarelli)
LED ZEPPELIN – “In Through The Out Door”

MAGNUM – “II”
Nel 1979 i Magnum tornavano sul mercato con il loro secondo album dopo l’incoraggiante esordio “Kingdom Of Madness”. “Great Adventure” risentiva dell’influenza dei primi Queen con più excursus però di tradizione prettamente prog; Bob Catley era già in formissima ancorché leggermente acerbo. In “Changes” e “The Battle” le tastiere pomp di Richard Bailey la facevano da padrone; per le parti più AOR, la vicinanza ai coevi Toto si poteva cogliere facilmente anche se l’impronta tipicamente britannica è innegabile. C’è addirittura qualcosa dei primi Rush (“Reborn”) come non mancano i cenni folk (“Firebird”)… un eterogeneità di aspetti musicali che rendono i Magnum una delle band più interessanti del panorama hard rock britannico, forse mai adeguatamente considerata (Alberto Capettini).