Mekong Delta – Recensione: Tales Of A Future Past

Non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti” dicevano una volta i magistrali Skiantos. Ed in effetti viene difficile dar loro torto, così come viene da pensare che la stessa ingrata sorte sia spettata a molte delle band più “sperimentali” che nel metal hanno sperato di ottenere quel successo che ha invece più banalmente arriso a chi certi cliché li ha rispettati con la stessa abnegazione con cui Den Harrow si depila i pettorali. Tra i tanti che non hanno mai avuto il riconoscimento dovuto sicuramente un posto lo meritano i tedeschi Mekong Delta, che fin dalla metà degli anni ottanta hanno cercato di parlare un linguaggio diverso, ibridando il loro power-thrash con influenze che vanno dalla musica classica al progressive, creando così uno stile che nel tempo è diventato marchio di fabbrica e che ancora oggi non manca di essere unico e totalmente originale. Va detto, a discolpa del mercato musicale, che ascoltare e digerire, condizione necessaria per apprezzare, un album della band di Ralph Hubert non è per nulla semplice. E “Tales Of A Future Past” non fa eccezione… In canzoni, ad esempio, come “Mental Entropy”, “The Hollow Men” o “Mindeater” sono infatti riscontrabili alcuni ingredienti tipici del metal (prog, thrash, power), come le ritmiche serrate o il riffing tagliente, ma il tutto è dannatamente complicato da frenetici cambi di ritmo, inserti che spiazzano e linee vocali eccellenti, ma non proprio easy listening. Per non parlare poi delle quattro tracce strumentali, tutte raggruppate sotto il titolo “Landscape”, in cui emerge la abituale influenza neo-classica, come sempre rivista in chiave metal, ma comunque lontana come idea dall’impatto muscolare a cui l’heavy rock ci ha abituato in molte delle sue forme più popolari.

Comprensibile provare inizialmente una simil-irritazione verso quella che appare come una struttura fin troppo volutamente cervellotica. Per togliersi però il dubbio basta riascoltare l’album un numero di volte sufficiente ad entrare nel mood delle composizioni: si scoprirà che non c’è nulla di superfluo, ed anzi, ogni singola sfumatura è funzionale a creare la giusta tensione e atmosfera. In questo senso una menzione particolare è indispensabile per “When All Hope Is Gone”, una vera perla musicale di oltre nove minuti che affascina e coinvolge, catturando l’ascoltatore con melodie stranianti, cori suggestivi e accostamenti armonici inusuali. Un brano classicheggiante, con una punta di metal, molta teatralità e un carattere sospeso tra il dark e la freddezza tipica di un certo progressive. Ben si abbina quindi all’immaginario evocato l’artwork di copertina, opera dell’illustratore David Demaret, che prende ispirazione dal romanzo “Le montagne della follia” del maestro del sci-fi/horror H.P. Lovecraft, da sempre uno dei punto di riferimento della band (il titolo “The Music Of Erich Zann” ne è un evidente conferma). Certo, non a tutti può risultare piacevole spararsi 55 minuti di musica così concepita, ma per chi invece un certo format rimane intrigante, la ricompensa sarà un disco ricco di particolarità e spessore. Come lecito attendersi da una band della caratura dei Mekong Delta.

Etichetta: Butler Records

Anno: 2020

Tracklist: 01. Landscape 1 – Into The Void 02. Mental Entropy 03. A Colony Of Liar Men 04. Landscape 2 – Waste Land 05. Mindeater 06. The Hollow Men 07. Landscape 3 – Inharent 08. When All Hope Is Gone 09. A Farewell To Eternity 10. Landscape 4 – Pleasant Ground

riccardo.manazza

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Incapace di vivere lontano dalla musica per più di qualche ora è il “vecchio” della compagnia. In redazione fin dal 2000 ha passato più o meno tutta la sua vita ad ascoltare metal, cominciando negli anni ottanta e scoprendo solo di recente di essere tanto fuori moda da essere definito old school. Il commento più comune alle sue idee musicali è “sei il solito metallaro del cxxxo”, ma d'altronde quando si nasce in piena notte durante una tempesta di fulmini, il destino appare segnato sin dai primi minuti di vita. Tra i quesiti esistenziali che lo affliggono i più comuni sono il chiedersi il perché le band che non sanno scrivere canzoni si ostinino ad autodefinirsi prog o avant-qualcosa, e il come sia possibile che non sia ancora stato creato un culto ufficiale dei Mercyful Fate.

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