Soulfly, atto terzo. Un nuovo capitolo che a dire il vero lascia molte perplessità (per qualcuno invece si tratta di conferme: la certezza che Max Cavalera ha ormai irrimediabilmente perso la sua verve) e dubbi come sottolineato in fase di recensione. Un disco di cui vale la pena di parlare proprio per questo motivo. La parola al lider maximo Max: “E’ un disco molto vario, si va dal metal, all’hardcore, agli elementi tribali… riflette quelli che sono i miei ascolti fondamentalmente. Melodico e aggressivo allo stesso tempo. E’ vero che in generale è un disco più aggressivo, ma è una cosa che è successa naturalmente, penso sia dovuto anche alla scena che ci circonda: è tutto molto noioso, i gruppi sembrano voler cercare a tutti i costi dei pezzi che li facciano andare in classifica… quindi i ragazzi ed io abbiamo deciso di dedicarci a qualcosa di più pesante e diretto. C’è anche molta melodia comunque: è un melodia comunque diversa da quella che si sente in giro, non è certo roba che può passare per radio, ma è comunque ‘piacevole’ da ascoltare…”. Un lavoro di gruppo quindi? Non proprio, ma comunque il risultato di una ricerca particolare, che ha portato la band a spostarsi su territori più pesanti da un lato e a sperimentare dall’altro: “Ho scritto la maggior parte delle musiche, con l’aiuto di Marcelo, il bassista: mi piace il suo modo di suonare, molto originale, con uso smodato di wah-wah. Mike ha contribuito molto a livello di arrangiamenti di chitarra e ora che Roy è tornato a suonare la batteria con noi siamo a posto: amo il suo modo di suonare, veramente potente. Il suono questa volta direi che è per il 70% organico, mentre per il restante 30% è fatto di loop, drum machine e simili, come ad esempio succede in ‘Tree Of Pain’ o in ‘One’. Mi piace molto sperimentare con questo genere di cose”. I Sepultura sembrano lontani quindi, ma l’attenzione ai temi sociali sembra rimasta intatta o quasi: “‘Zumbi’ è un pezzo che parla della schiavitù. Zumbi era il nome di uno schiavo guerriero che è divenuto un eroe liberando la propria gente dai padroni. Si parla di trecento anni fa ovviamente e c’è un film brasiliano che narra la storia di questo personaggio… non è una produzione hollywoodiana ovviamente, non è a quei livelli, ma ha la stessa potenza espressiva di un film come ‘Amistad’… anzi penso che sia anche più interessante, visto che quanto accadeva in brasile era decisamente più drammatico. Non siamo una band politica. Parliamo di certi argomenti, abbiamo incluso una traccia di un minuto di silenzio dedicata all’11 settembre per far riflettere su cosa stia accadendo nel mondo, ma non siamo una band politica. Se ti fai classificare così poi sei costretto ad essere ‘politico’ sempre. Non voglio restare imbrigliato in questa definizione”. Al di là di tutto sembra evidente che il solco espressivo e sonoro su cui si muovono (e si muoveranno?) i Soulfly sia stato tracciato già da due album: infiltrazioni tribali, riff inequivocabilmente ‘nu’, presenza di ospiti nel disco… viene il dubbio che Max abbia trovato la formula giusta per esprimersi e non abbia intenzione di abbandonarla… “Non ci sono così tanti ospiti come in passato stavolta, perché il disco è nato come erano nati ‘Chaos A.D.’ e ‘Roots’, nel senso che abbiamo chiamato gli ospiti solo quando eravamo sicuri che potessero aggiungere qualcosa, come è successo con Jello Biafra. Questa volta sentivo di avere una band solida alle spalle e anche le canzoni sono più solide e dirette, più classiche nello stile, pensa ad esempio a ‘Enterfaith’ o ‘Four Elements’ o ‘Seek’N’Strike’. Anche se non mancano le sperimentazioni, come dicevo. Ho cercato per molto tempo di creare questa mistura di musica esotica, tribale, metal e hardcore… qualcuno l’ha chiamato ‘world metal’ parafrasando la definizione ‘world music’. Ho raggiunto questo risultato, ma non credo che sia un punto di arrivo, bensì un nuovo inizio: d’ora in poi posso andare avanti su questo percorso con queste sonorità. Ci sono voluti tre dischi per trovare la giusta alchimia, ora mi piacerebbe sperimentare, magari registrare qualcosa con dei monaci tibetani… qualcosa di nuovo e originale insomma”. Un album che mette in mostra anche un b8uona dose di misticismo e spiritualità, come già succedeva negli ultimi lavori. Sembrano distanti i tempi in cui Max era solito aprire i concerti italiani con una sonora bestemmia. Conversione improvvisa?“‘Roots’ era il primo disco che dedicavo a Dio perché penso che ci fosse qualcosa di speciale dentro quella musica. Credo in Dio, anche se non sono il tipo che va in chiesa, le chiese sono piene di gente snob… sono cresciuto rispetto al passato, quando c’erano croci rovesciate e simili. E’ una evoluzione naturale credo, era importante per me trovare una certa fede. Non si può fare gli Slayer tutta la vita…”. A questo punto non resta che pensare al futuro, a questo punto… “Il metal rappresenta le mie origini, ma non è la direzione che voglio seguire. Voglio provare a mischiare, a contaminare… credo che ‘Roots’ sia stato la chiave di volta, la gente da quel disco in poi ha guardato in maniera diversa al metal. Penso che molta gente si sia ispirata a quelle sonorità”.