Che il fatto di parlare dei Måneskin sia solo un punto di partenza per spaziare più ad ampio raggio, lo avrete ormai capito tutti. Questa parte del nostro excursus vuole prendere in esame quel fenomeno antropologico, baraccone, buffonata o come lo volete descrivere, che prende il nome di Festival di Sanremo. Che blasfemi: parliamo di “quella cosa là”, di colui-che-non-deve-essere-nominato proprio qui. Tranquilli: non vi suggeriremo di mettervi ad ascoltare Lena Biolcati o Jo Chiarello.
(ma in caso…)
Quello che ci interessa fare è una panoramica che sarà rapida e potrebbe essere incompleta, di alcuni tentativi, dagli anni ’80 in avanti, di portare qualche sfumatura di hard rock o addirittura heavy metal nel famigerato Festival. Già, perché qualche tentativo c’è stato, soprattutto in quegli anni in cui l’heavy metal veniva visto un po’ come un curioso fenomeno di costume di cui ci si poteva occupare stando a distanza di sicurezza. Dobbiamo tornare indietro al 1982 per trovare due esecuzioni interessanti fra i cosiddetti superospiti, ovvero quella dei Van Halen:
E quella dei Kiss, in diretta da New York, sempre lo stesso anno (non esistono purtroppo reperti video di qualità decente).
Correva l’anno 1983 quando nientemeno che i Saxon approdarono sul palco della città ligure. In playback, è chiaro. Mica penserete che quei bacchettoni di Sanremo facessero esibire dal vivo dei simili emissari del demonio, no?
Sempre lo stesso anno si esibirono anche gli Scorpions, con il brano “Lonely Nights”.
Passa solo un anno, ed è il turno dei Queen con “Radio Ga Ga”. Non parliamo di metal questa volta, ma il talento indiscusso va riconosciuto (e poi in passato abbiamo raccontato piccole cose su di loro, quindi non andiamo fuori tema).
Possiamo infine bearci con la visione degli Europe giovani e lungocriniti nelle loro esibizioni (sempre in playback, ci mancherebbe) del 1987 e 1989.
Pensate che stiamo guardando troppo indietro nel tempo e che questi sono discorsi da dinosauri? Guardate che cosa è successo con i Placebo nel 2001.
Tutto questo per dire che, negli ultimi anni, ci sono stati dei tentativi di portare il metal (in senso lato, non mettiamoci per favore a fare distinzioni di etichette di genere che non finiamo più) a Sanremo, ma che si sono scontrati contro due nemici: il playback e il pubblico.
Non siete ancora del tutto convinti? Andiamo a vedere cosa è successo ad alcuni musicisti o band che, sempre a partire dagli anni ’80, hanno fatto dei tentativi di portare sempre su quel famigerato palco della musica un po’ meno melodica e un po’ più heavy.
(attenzione: nemmeno in questo caso vogliamo fare un trattato esaustivo. Per chi fosse interessato a un approfondimento su questo tema, possiamo consigliare il libro, non completo ma interessante, “Intrusi a Sanremo”, di Joyello Triolo, edito da Crac Edizioni).
SHARKS
Siamo nel 1989, fra le Nuove Proposte si affacciano al mondo gli Sharks, con un brano hard rock addolcito da qualche tastiera tipica del periodo, ma fedele a quello che era lo stile della band.
A questo proposito, abbiamo avuto la fortuna di parlare con Andrea Ge, all’epoca batterista degli Sharks, proprio di quell’esperienza:
E’ la settimana tra il 21 e il 25 Febbraio di qualche anno fa, precisamente nel 1989. Ai più, queste date forse non significano niente ma per 5 ragazzi di 20 anni con la voglia di suonare, farsi conoscere e stupire sono davvero importanti. Coincidono con la 39° edizione del Festival di Sanremo, dove per la prima volta la band milanese Sharks calca il palco dell’Ariston assieme a grandi nomi della scena musicale.
Ricordo quando il nostro manager Enrico Rovelli ci comunica la partecipazione al Festival, non potevamo crederci. Che lo si ami o lo si odi, Sanremo è in assoluto la manifestazione musicale più conosciuta del Paese e per noi sicuramente, una delle occasioni più importanti per mostrarci al grande pubblico. Con questa formazione dal 1986 stavamo già collezionando una serie di esperienze esaltanti, dal primo posto al Sim Hi-Fi a Milano del 1987, alla partecipazione al concorso di fama mondiale Band Explosion organizzato dalla Yamaha al prestigioso Budokan di Tokyo, la pubblicazione del nostro primo album “Notti di Fuoco” prodotto da Luigi Schiavone e Enrico Ruggeri, la promozione radiofonica e televisiva (RAI, Mediaset etc.), fino al tour italiano con i Jethro Tull del 1988.
Essere al Festival di Sanremo era comunque qualcosa di più, significava avere la possibilità di portare la nostra musica dove notoriamente è bandita o per usare un eufemismo è suonata a basso volume. Certo con gli occhi di oggi può sembrare assurdo ma il rock ci ha messo davvero tanto tempo a essere sdoganato al Festival. Noi non eravamo certamente niente di scioccante ma 33 anni fa, una band come la nostra era qualcosa di mai visto prima, energetico, vivo, fresco e spettacolare. Noi senza falsa modestia rappresentavamo davvero tutto ciò.
Il brano “Tentazioni” scritto assieme a Vasco Rossi è stato il biglietto da visita per aprirci le porte dell’Ariston ma ben presto anche gli addetti ai lavori, si sono resi conto che non eravamo certo dei raccomandati o un prodotto fatto a tavolino ma una vera band, forte e sincera. Avevamo dei numeri, avevamo la voglia di farcela, eravamo compatti, complici, musicalmente preparati, con un chitarrista eccezionale e un frontman dalle capacità vocali (e acrobatiche) da lasciare a bocca aperta. Chi poteva fermarci?
Quell’anno non c’era l’orchestra ma si cantava dal vivo, peccato la sera della diretta dopo ben 8 prove video dedicate al flic-flac acrobatico del cantante, i tecnici di RAI 1 decidono di girare le telecamere dall’altra parte. Poco importa, su quel palco abbiamo comunque dato il meglio di noi e ricordo benissimo la platea dell’Ariston esplodere alla nostra esibizione, come mai sentito prima (e dopo).
Dietro le quinte, l’adrenalina ci mette un po’ ascendere e ci chiediamo quale sarebbe stato il verdetto finale. Nel giro di poche ore torniamo tutti con i piedi per terra, andare avanti vuol dire investire. All’epoca si parla di milioni (di lire) e lo sforzo della ns. casa discografica CGD con Caterina Caselli con il manager Rovelli era già stato notevole. Il nostro percorso al festival finisce lì.
I vincitori sono Fausto Leali e Oxa con “Ti lascerò”. Negli occhi mi rimane ancora l’esibizione di Mimì, con “Almeno Tu Nell’Universo”, la pacchianata di Jovanotti “Vasco”, il mio Maestro Tullio De Piscopo che presenta “E Allora E Allora” dopo aver trionfato l’anno prima con “Andamento Lento” e poi ancora, l’incontro con la Steve Rogers Band (qualche anno dopo sarei diventato il batterista di Massimo Riva), stringere la mano a Ray Charles e le serate indimenticabili nei locali di Sanremo vissute da vere rockstar con tanto di macchinone e autista.
Di fatto, questa esperienza ci porta a proseguire con tante altre come il tour con Vasco e i Deep Purple, Festivalbar, Saint Vincent, articoli, radio, tv, interviste e concerti. Poi nel giro di un paio di anni alcuni fattori porteranno al nostro scioglimento, ma questa è un’altra storia.
Esito: eliminati alla prima serata.
TIMORIA
Prima di pubblicare “Viaggio senza vento”, nel 1991 i Timoria andarono a Sanremo, con un brano ispirato a un libro di Victor Hugo.
Questa partecipazione portò a reazioni scandalizzate da parte dei circuiti underground che accusarono la band bresciana di essersi venduti al business, con conseguenti tensioni all’interno del gruppo e rischio di scioglimento.
Esito: eliminati alla prima serata. Ma poi richiamati perché si decise di assegnare loro il Premio della critica. Giusto per dare un contentino.
DHAMM
I laziali Dhamm partecipano al festival in due annate consecutive, 1995 e 1996. Le sonorità in entrambi i casi sono molto più leggere, il testo è molto meno “aggressivo”, con tanto di riferimenti all’amore, alle lacrime e alla solitudine e all’amore paterno. Il primo anno, infatti, non andò neanche troppo male. Ma se ti va benino la prima volta, è meglio non rischiare una seconda:
Esito: quinto posto fra le Nuove Proposte (quindi abbastanza inutile) nel 1995, non ammessi alla finale nel 1996.
Per non parlare di chi, nell’anno domini 2000 in modo quasi eroico, ha provato a cimentarsi con un brano ancora più atipico, caratterizzato da un riff vicino al noise ripetuto fino allo sfinimento e un testo dall’interpretazione a dir poco ostica.
Le colpe degli insuccessi, in questi casi, si suddividono equamente fra giurie di qualità, giurie demoscopiche, pubblico, band che scendono a compromessi (o no, a seconda dei punti di vista), per non parlare del tanto vituperato cantato in italiano. Insomma, non ci sono soluzioni. Probabilmente il rock a Sanremo è stato e resterà sempre un incidente di percorso, che farebbe meglio a tenersi da parte e proseguire sui propri binari paralleli. In questo la vittoria dei Måneskin è, ancora una volta, rivoluzionaria. Perché diventa anche una sorta di rivalsa nei confronti di tutti quelli che, prima di loro, ci hanno provato, hanno preparato la strada, per parlare in termini evangelici, e non sono riusciti ad arrivare. E non è questione di avere un brano più o meno efficace, ma del cambiamento dei tempi che ha portato, finalmente, a far accettare una band rock e a portarla alla vittoria proprio su quel palco-che-non-si-può-nominare.
(se poi non vi abbiamo convinti e persistete nel dire che chi partecipa a Sanremo merita l’oblio, potete sempre protestare come fecero gli orchestrali nel 2010).
(Anna Minguzzi)
ITALIANI, POPOLO DI ESTEROFILI O ODIATORI DI TUTTO CIÒ CHE POSSA SEMBRARE DIVERSO?
L’italiano medio, e la situazione pandemica attuale ne è la dimostrazione, è tendenzialmente polemico, urlatore, si erge a giudice, è tuttologo e commenta facendo paragoni improbabili in cui in sostanza non vengono mai fatti notare pregi, ma solamente i difetti.
Ogni volta poi che si parla di musica partono le faide: che cos’è rock? Cosa non è rock? E giù di commenti, dagli eterni nostalgici che si sono fermati, se siamo fortunati, al 1981, a chi di italiano non ascolta nulla “perché la musica italiana fa cagare” e così via dicendo.
La verità è proprio questa: non sappiamo ascoltare e manca l’obiettività.
E’ recente e focosa la polemica montata intorno a Måneskin, quartetto romano colpevole di aver raggiunto il successo con X-Factor, colpevole di cantare in italiano ma troppo spesso in inglese, colpevole di vestirsi in maniera “promiscua”, colpevole di non fare musica. Che si faccia un po’ di rumore (ben venga il rumore!) o che si faccia qualcosa di melodico, la polemica è sempre dietro l’angolo e il non ascolto il suo complice.
Negli anni abbiamo visto Laura Pausini esplodere in Spagna e Sud America, abbiamo visto trionfare Tiziano Ferro, per non parlare dei sold out in Russia di Pupo e il duo Al Bano & Romina. Ma che cos’hanno in comune tutti questi professionisti che hanno portato un pezzetto di Italia al di fuori dei confini nazionali? Beh, il comune denominatore è lo stesso, e metto il virgolettato perché non sono parole di chi scrive: “non rappresentano l’Italia”.
Ed ogni volta ci si scatena dietro a questa polemica, perché l’Italia sembra che sia solamente sole, cuore e amore, musica leggera e precampionata, ritornelli strappalacrime e via dicendo, ma quando qualcuno prova a fare qualcosa di diverso che cosa accade? Accade la stessa identica cosa. Prendiamo come esempio i Lacuna Coil, un gruppo che negli anni ha ingoiato rospi sempre più grossi, determinato nel fare musica e anche con l’idea di sperimentare. Sono partiti da piccoli palchi per poi calcare le scene dei festival esteri più blasonati, hanno girato il mondo portando con fierezza la loro musica, senza mai rinnegare le proprie radici. Io sono fiera dei Lacuna Coil, ma il metallaro medio? Il metallaro medio da Gods of Metal e corna alzate non gradisce, fischia e urla “non rappresentano l’Italia”. E invece cosa dire dei Fleshgod Apocalypse, una vera e propria eccellenza, che si discosta da tutto ciò che possa essere catchy, un progetto totalmente sperimentale e con una tecnica musicale così raffinata da far invidia a molti? Il risultato è che ad ascoltarli siamo in quattro gatti.
Come mai si acclamano tanto i Five Finger Death Punch e si denigrano i Lacuna Coil? Il genere non è forse lo stesso? Come mai siamo tutti con la bava alla bocca per la band nordiche, ma ignoriamo totalmente i nostri conterranei?
Abbiamo il sole fuori, ma la tempesta dentro.
Arriviamo in ultimo al discorso talent. Sembra che i talent rappresentino il male vivere, il covid 2.0, la terza guerra mondiale e, perché no, la causa della fame del mondo. La verità è che cambia la musica, cambiano i generi e cambiano soprattutto i mezzi di diffusione. Se prima le vetrine potevano essere il Festivalbar, il Festival di Sanremo e MTV, ora abbiamo piattaforme streaming, social e talent. Ma i talent sono così negativi? I talent non sono che una piccola, ma significativa, rappresentazione di tutto ciò che è musica. I talent sono anche fonte di scoperta: quanti adolescenti avrebbero ascoltato “Closer” dei Nine Inch Nails se Manuel Agnelli non li avesse assegnati ai Mutonia? In una stessa stagione veniamo messi a contatto con generi diversi, rielaborazioni diverse di pezzi storici e non, band più o meno contaminate ma anche singoli performer. I talent sono un terreno attuale e contemporaneo, con maxi produzioni, che costituiscono un importante biglietto da visita per artisti neofiti ma anche per coloro che negli anni hanno avuto difficoltà ad accedere ad una vasta platea e che hanno scelto di provare il mondo tv per far conoscere la propria arte (un esempio è Erio, partecipante ad X-Factor 2021 e con una lunga storia musicale alle spalle).
Probabilmente dai nostri talent uscirà quasi sempre la musica pop, perchè è il nostro lait motiv, ma vorrei ricordare a tutti che Mr. Adam Lambert, la cui timbrica fa venire i brividi, è proprio grazie alla sua partecipazione ad American Idol che è stato notato dai Queen. Quindi riempiamo ancora gli stadi per andare a sentire i Queen & Lambert ma andiamo in tachicardia per i Måneskin?
EDIT: Sanremo è finito da qualche giorno e la platea web/social si è scatenata in generale, ma soprattutto in seguito alla pubblicazione della prima parte del nostro speciale.
L’approfondimento non nasce, come qualcuno ha scritto, per fare del click baiting o per salire a bordo del carro vincente, ma offrire una lettura diversa sul mondo musicale attuale.
Metallus ha quasi i miei anni (non diciamolo, sono pur sempre una signora) e negli anni, tra una cambio di redattori e l’altro, si è sempre scritto di musica, andando anche a scovare delle eccellenze ai più sconosciuti e facendo approfodimenti, che tra un lavoro e l’altro, ci hanno fatto passare notte insonni a consumare le dita sulle nostre tastiere. Abbiamo pubblicato speciali sui Pantera, approfondito interi generi musicali con articoli inediti a livello europeo e sapete cosa abbiamo ottenuto come risposta? Il silenzio generale.
Cosa abbiamo ottenuto in seguito alla pubblicazione della prima parte dello speciale? Centinaia di commenti (spesso fatti sulla base del titolo, senza aver nemmeno aperto l’articolo), moltissime condivisioni e un’eco social che non avevamo da tempo. Vale la pena occuparsi quindi di musica rock & metal in maniera alternativa? Vale la pena continuare a studiare, ascoltare e fare approfondimenti per ottenere il silenzio generale ma commenti al vetriolo se si fa qualcosa di più “pop”?
La risposta è sì: perché per noi la musica, qualunque essa sia, sarà sempre motivo di unione, scoperta e condivisone e mai di odio. Ci saranno sempre, o forse no, le divisioni in genere musicale e poi basta.
Al di là di questa mia ultima polemichetta, messa lì nella speranza che qualcuno legga e apra un dibattito, mi permetto di dare un ultimo consiglio. Dal momento che che sembra che l’italiano odi tutto ciò che è italiano e che non ne riconosca mai pregi e qualità, ascoltatevi Mondo Cane, progetto musicale di Mike Patton che fa rivivere la musica leggera italiana portandola in giro per il mondo con eleganza, cura e passione.
Insomma, pace e bene, non avveleniamoci per la musica e stiamo tutti un po’ zitti e buoni!
(Francesca Carbone)
Non condivido la disamina fatta da Francesca Carbone.