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Månes… chi? – Prima parte: il divario generazionale

A meno che tu, lettore, non abbia vissuto sotto una roccia nel 2021 (che diciamocela tutta, non ti biasimerei affatto), avrai sicuramente sentito parlare dei Måneskin. La band, nel bene o nel male, è finita prima nelle orecchie, e poi nella bocca un po’ di tutti. Tra le vittorie di Sanremo e dell’ESC, la costante presenza nella top 100 mondiale di artisti più ascoltati secondo Spotify, fino al boom negli States, con annessa partecipazione al Jimmy Fallon ed apertura a niente di meno che i Rolling Stones. Eppure, qui in Italia, se ne parla poco. E, generalmente, se ne parla male. Qual è stato il punto che ha spaccato in due il pubblico nostrano? Come mai, tra critici e musicisti, gira un velo di imbarazzo al solo nominare del quartetto romano? Metallus, nel nome del dialogo diplomatico e (quasi sempre) pacato, vuole provare a darsi qualche risposta.

PARTE 1: DIVARIO GENERAZIONALE

Premessa: So che siete abituati a “critici” che parlano di plagi, produzione patinata (qualsiasi cosa voglia dire), quattro piscialetto (vai Jack, non specifico dove però) costruiti da Sony Music o dagli illuminati per far soldi. Però con molto dispiacere noto sempre la mancanza di un tassello fondamentale quando si nominano i Måneskin: una discussione diplomatica e pacata. Ormai, nelle nostre camere dell’eco, gli ideali rimbalzano senza un’antitesi che possa accendere la miccia di una discussione. Le cose ci sembrano o completamente positive, o completamente negative. La realtà dei fatti è che, al contrario, c’è del buono e del cattivo in QUALSIASI argomento si voglia prendere in esame. E visto che come esseri umani ciò che ci separa dalle altre specie è un’evoluta capacità di comunicare, questo speciale vuole essere spunto di riflessione e discussione civile, per togliere questo inutile stigma che si è creato sul fenomeno Måneskin.

Partiamo dall’argomento più importante, ma stranamente anche il meno discusso: la musica. Già, i Måneskin fanno anche musica. Ed è qui che voglio lanciare la prima bomba di questo speciale: “Teatro d’Ira” è un disco che ho amato alla follia. Ammetto che “Il Ballo Della Vita”, esordio del quartetto romano, mi aveva lasciato in bocca quel sapore plasticoso di ‘en vogue’. La palese ricerca del trendy è in costante conflitto con le idee originali e più intime dei quattro (che comunque sfornano pezzi come “Morirò Da Re” o “Torna a Casa”, che indubbiamente funzionano e sono arrivate al successo che meritavano). Stiamo però parlando di un album di debutto, per di più di una band all’epoca composta principalmente da minorenni. Ragion per cui ho preferito concentrarmi sul potenziale positivo che comunque era lampante, piuttosto che sui tentativi a mio parere falliti di accaparrarsi una maggiore fetta di pubblico come “L’Altra Dimensione” e “Immortale”. Tutto questo discorso noioso sul lavoro passato della band serve a settare la base per quello che secondo me è il punto di forza di “Teatro d’Ira”: la coerenza artistica. Nessuna delle 8 tracce che compongono il progetto suona fuori luogo. Nonostante la modernità nell’approccio (la scelta, ad esempio, di limitare la tracklist a 8 pezzi, perché sfortunatamente nel 2021 un disco di più di 30 minuti l’ascoltatore medio non lo digerisce), la stesura dei pezzi suona molto meno come un ‘prodotto dei suoi tempi’ e molto di più come un album dei Måneskin. Questo sicuramente contribuirà a farlo invecchiare molto meglio rispetto al suo fratellino maggiore.

Una cosa che spesso viene tartassata dalla cerchia di critici che trattano musica alternativa è la produzione cristallina del progetto. Ora, partiamo dal presupposto che non esiste produzione bella o produzione brutta. Io, personalmente, arrivo soprattutto dalla scena hardcore/punk/grind/ska. La maggior parte dei miei dischi preferiti suonerebbero malissimo nelle orecchie di moltissimi altri ascoltatori, seriali o meno. Eppure li adoro e non ne cambierei una frequenza. Siamo dunque tutti d’accordo che, in linea di massima, il discorso mix, master e suoni è puramente soggettivo (salvo alcuni casi). La domanda che mi sorge spontanea però è questa: come mai nel 2021 se un disco suona chiaro e pulito come “Teatro d’Ira” viene etichettato “overprodotto” e quindi non come un lavoro di qualità? Mi sono perso un passaggio? Mi rivolgo in modo cortese al classic-rocker di turno: sei davvero convinto che se i Led Zeppelin avessero avuto la tecnologia odierna i loro dischi suonerebbero comunque così “puri e grezzi” come te li ricordi? Le bassline di Victoria, in particolare, risaltano con una tale prepotenza che d’istinto mi è presa voglia di impararmene una buona parte e, già che c’ero, rivedere il mio suono. E personalmente non c’è niente di più bello di un disco che ti fa salire la voglia di suonare. Non è solo il basso a prendersi la scena però. Le chitarre di Thomas riescono a suonare moderne ispirandosi tantissimo all’hard rock dei tempi che furono, mentre il kit di Ethan non ha un overhead fuori posto. Certo, loro hanno Sony che li finanzia, possono permettersi di spaccare il capello. Il che è un male… giusto? Voglio sfatare un mito. L’etichetta può spingere un’artista fino a sfinire il pubblico. Ma se l’artista non è all’altezza, sono tutti sforzi sprecati. Dovrebbe essere senso comune. Invece, a quanto pare, è solo grazie a Sony se quattro ragazzi di vent’anni che tengono il palco meglio di moltissimi colleghi veterani si sono guadagnati l’apertura agli Stones a Las Vegas. Con questo non voglio negare che la spinta ci sia stata. Che piaccia o meno, spingere l’artista è il lavoro dell’etichetta. Sarei stato sorpreso del contrario vista l’entità della major. Mi sfugge però come essere spinti da un’etichetta possa svalutare il lavoro artistico di quattro ragazzi (che comunque sono accreditati come soli compositori e co-produttori del progetto).

È proprio in quel di Las Vegas, nel concerto più importante della loro carriera, che i Måneskin decidono di aprire la scaletta con “In Nome Del Padre”, forse il pezzo più incazzoso di tutto “Teatro d’Ira” insieme a “Lividi Sui Gomiti”. Nonostante la vasta scelta in fatto di singoli spendibili per accattare più fan possibili, il quartetto sputa subito una fiondata di rabbia, in italiano, sul pubblico made in USA. Una scelta poco saggia, ma davvero molto punk come attitudine. Eh si, perché “Zitti e Buoni” è solo la punta dell’iceberg quando si parla di tracce graffianti all’interno di quest’ultima fatica. Per la buona fetta di audience che si è rifiutata di dare un ascolto completo al disco, lo si può riassumere come tutto ciò che c’era di buono nel debutto, ma dieci volte più maturo. Non mancano le ballate come “Coraline” e “Vent’anni”, dall’enorme peso emotivo concentrato nei testi di Damiano. Ammetto di essere ancora nella ventina, quindi forse le liriche mi colpiscono in modo più diretto, ma in “Vent’anni” ho rivisto tutto ciò che sto passando, tutte le mie paure, tutte le mie rivalse. Damiano però non è solo uno scrittore di altissimo livello, ma indubbiamente un cantante tanto talentuoso quanto carismatico. Non voglio sviare nella questione attitudine e look della band, non in questo punto dello speciale perlomeno. Ci tenevo invece a dare una buona infarinatura al tutto concentrandomi su quello che molte altre testate hanno bellamente ignorato, ovvero il loro comparto musicale. Su questo fronte, Damiano ha la fortuna di avere un timbro particolarmente riconoscibile, oltre che una dote innata per azzeccare sempre la melodia giusta al momento giusto. Insomma, per far crollare il castello di formalità che stavo costruendo così metodicamente, trovo che abbia davvero una voce della madonna. Oltre a tutto ciò, gli si può attribuire una pronuncia notevole anche nei pezzi inglesi, sempre e comunque perversi, quali “For Your Love” (che forse è il mio brano preferito del disco, nota di merito al solo di chitarra eccellente) e “I Wanna Be Your Slave”. Che poi diciamocelo, se Iggy Pop vuole riarrangiare un tuo pezzo, probabilmente stai facendo qualcosa di giusto.

Per chiudere il discorso musica, non posso che vedere in questi ventenni un futuro fatto di meno taboo, fatto di normalizzazione di ogni visione ed orientamento sessuale, fatto di ‘ci riprendiamo quello che è nostro’. Ed è esattamente questo che voglio dal rock moderno. Rabbia, ribellione ed originalità. Perché ci siamo rotti il cazzo di tutti questi stigmi imposti dalla società, ed ora abbiamo un altro manifesto da portare anche all’estero quando ci troveremo faccia a faccia con il nostro precario e titubante futuro. E mi sono anche rotto il cazzo di dover fingere disinteresse con i colleghi musicisti e critici quando si parla dei Måneskin, perché la realtà dei fatti è che stiamo indubbiamente discreditando una band che finalmente sta dando un po’ di voce all’alternative italiano. Il motivo? Molti in realtà, ma non è questa la parte dello speciale in cui ne vogliamo discutere. Per ora mi limito a dire questo: “Teatro d’Ira” è, e resterà, uno dei miei dischi preferiti del 2021, e se ne siete stati alla larga per qualsivoglia ragione, sono sicuro che un ascolto a mente aperta può regalarvi un esperienza musicale capace di sorprendervi.

(Matteo Pastori)

LA RISPOSTA

Matteo nel suo scritto si chiede cosa ne pensa un classic-rocker del fatto che, se i Led Zeppelin avessero avuto l’attuale tecnologia, non avrebbero fatto un disco super prodotto. La risposta da parte del sottoscritto, che è definibile un classic-rocker per gusti musicali e purtroppo anche per età è semplice: i Led Zeppelin, come tutti i gruppi di punta dell’epoca, avevano, relativamente alla tecnologia del periodo, le migliori produzioni possibili, al top dell’avanguardia di una cinquantina d’anni fa. Non a caso funzionano ancora benissimo e vengono regolarmente ascoltati ed acquistati, e credo nessuno si sogni di dire che suonino male, al massimo si dice che suonano “vintage”, che corrisponde esattamente al massimo delle possibilità di allora: non a caso sono degli autentici standard sonori per le attuali produzioni delle band che si rifanno al grande rock del tempo che fu, ovviamente riviste con la tecnologia odierna.

Questa premessa per dire che, se vogliamo analizzare il fenomeno Måneskin, non possiamo prescindere dal fatto che in qualsiasi periodo e genere musicale che andiamo a vedere, stiamo parlando di più o meno riusciti prodotti che come fine ultimo hanno la vendita. Certo, nel passato, all’alba della grande stagione del rock, c’era un mondo da esplorare e da parte dei manager discografici, probabilmente una ben maggiore libertà lasciata alle band di esprimere la propria arte (che non a caso ha prodotto in quel periodo le cose più significative ed influenti). Però se in ultima analisi i dischi non si vendevano, le band venivano lasciate a spasso. Se, per capirci, Chas Chandler non avesse capito, nella Londra di fine anni ’60 che quel ragazzo mancino di Seattle suonava la chitarra come nessun altro, e che questo avrebbe avuto anche delle notevoli potenzialità commerciali, probabilmente non avremmo avuto la rivoluzione scatenata dal genio di Jimi Hendrix.

In sostanza mi fa sorridere lo “scandalo” e la presunta mancata purezza destati dall’indubbio successo dei ragazzotti romani, polemiche, devo dire, spesso portate avanti da vecchi babbioni come il sottoscritto, che sembrano diventati i difensori di chissà quale fede, sfogandosi contro dei ragazzi che potrebbero essere i loro figli. La vicenda Måneskin sta invece a dimostrare come finalmente una major ha visto del potenziale in una band italiana, al di fuori dei luoghi comuni “mamma, pizza, mandolino, bel canto” ed ha avuto lungimiranza nel capire che era evidentemente il momento giusto per lanciarla in un sempre più asfittico mercato discografico. E del potenziale evidentemente c’era, altrimenti mica ci si investiva così tanto, al punto di ottenere la loro apertura ai Rolling Stones. Ottenuta, certo, attraverso un lavoro di management (a Jagger, Richards e soci non credo passi per l’anticamera del cervello di interessarsi a chi gli apre i concerti), ma tanto di cappello. A me personalmente, quello che ho ascoltato di questi ragazzi non è piaciuto, non ci ho trovato nulla che mi abbia colpito, ma è innegabile che abbiano il modo giusto di porsi, fra citazioni del passato e attitudine giovanile. Le ostentate provocazioni e ambiguità sessuali del cantante o le tettine coperte da nastro adesivo della bassista non sono certo delle novità, è da decenni che le abbiamo viste fare da personaggi quali Alice Cooper, David Bowie, Wendy O. Villiams o nel Rocky Horror Picture Show, tanto per fare degli esempi, ma penso anche che siano del tutto sinceri quando, coi loro atteggiamenti, irridono i regimi omofobi di Polonia o Ungheria. Quindi dei ragazzi immersi nel loro tempo, con la mentalità attenta ai diritti civili di giovani d’oggi decisamente svegli. E se fra questo tipo di pubblico hanno successo, vuol dire che riescono ad essere in sintonia con esso, parlano il suo linguaggio e vanno a riempire una nicchia evidentemente da tempo vacante, che fra trap, reggaeton e orrori vari, chiede un po’ più di quel rock che non sia necessariamente quello suonato da settantenni, che tanto piace ai loro genitori.

Non mi scandalizza per niente neppure il fatto che vengano da un reality. Se questi sono gli attuali strumenti per arrivare alla notorietà vuol dire che sono stati sfruttati bene. Non illudiamoci che in tutti i casi i grandi del passato fossero dei puri. Dei colossi come i Deep Purple erano nati a tavolino come un progetto dei manager Edwards e Coletta i quali volevano un gruppo inglese che emulasse il successo dei Vanilla Fudge, tanto per dire. E questo, mi pare che i fatti lo dimostrino, mica ha inficiato l’assoluto valore artistico sfociato da quel progetto. Certo, neppure mi sogno di equiparare i Måneskin ai Deep Purple. Semplicemente dico che ci dobbiamo rendere conto che non esiste nessuna “età dell’oro” e che il bilanciamento fra valore artistico e possibilità commerciale è una storia vecchia come l’industria musicale.

Questo è il loro momento, buon per loro, che se lo godano fino in fondo e che si tolgano tutte le soddisfazioni possibili. In una fase di successo effimero come questa, in cui gli investimenti a lunga scadenza nell’industria discografica sono cosa a dir poco rarissima, tutto ciò che di buono arriva va vissuto pienamente, senza dover avere rimpianti. I fatti stanno dimostrando che sono la proposta giusta nel momento giusto, e se questo può far da traino alla voglia da parte dei ragazzi di riprendere in mano dei veri strumenti musicali, ben venga.

Ultima noticina: ho letto tempo fa un’intervista alla bassista, e alla domanda su quali fossero le sue influenze da parte di bassiste donne, con esempi citati dal giornalista tipo Tina Weymouth o Kim Gordon, lei ha risposto con la meravigliosa Suzi Quatro. E questo, concedetemelo, l’ho trovato del tutto adorabile, per un attimo l’ho grandemente stimata.

(Daniele Zago)

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