Ineffabili L.A. Guns: dagli esordi del 1988 alla reunion di Phil Lewis (voce) e Tracii Guns (chitarre), che dal 2017 li ha visti pubblicare ben quattro album, si ha sempre l’impressione di non riuscire mai a cogliere questa band nella pienezza del suo migliore momento. Maestri del genere per alcuni e resistenti ostinati per altri, i quattro che su questo nuovo disco si completano con Johnny Martin al basso ed Adam Hamilton alla batteria hanno comunque il merito di continuare ad alimentare la fiamma di una formazione sporca e diversa che, pubblicando quasi venti album, è riuscita a vendere oltre dieci milioni di copie e sopravvivere, più di ogni altra cosa, a se stessa ed alle proprie turbolenti vicissitudini. Sporco e diverso sono qualità che ritroviamo anche in “Black Diamonds”, un album che in un certo senso perpetua l’immagine di un gruppo che ha scelto di rimanere ai margini di una scena – quella sleaze/glam della quale furono capostipiti insieme a Guns N’ Roses e Faster Pussycat – che in fondo non gli appartiene più. La proposta di Lewis e Guns è piuttosto un alternative low-fi caratterizzato da strutture semplici ed elementi ripetitivi, come la scelta di una “You Betray” all’inizio della scaletta conferma senza esitazioni né grandi imbarazzi. Tutti i suoni sono cavernosi e volutamente poco rifiniti, i tempi sincopati sono quelli che andavano negli anni novanta ed il disco ha una resa live che, se da un lato comunica autenticità e magari ribellione al sistema dell’iperprodotto, dall’altro non può far pensare ad una produzione un po’ povera ed autarchica.
Povero, purtroppo, “Black Diamonds” lo è anche di idee, perché i suoi giri blues (“Shame”) ed i suoi ritornelli alla Jizzy Pearl in declino (“Wrong About You”) potranno anche divertire per il tempo di una birretta, ma difficilmente giustificheranno l’esborso e si fisseranno nella testa in attesa di un riascolto. Se c’è una promessa che gli L.A. Guns rispettano, per la verità, questa è quella di proporre in questa occasione anche un lato più delicato ed intimista, che si manifesta con la ballad “Diamonds”. Nonostante la produzione rimanga spartana e non troppo diversa da quella di un buon demo (a volte ho avuto l’impressione che il disco fosse addirittura mono), questo particolare e struggente episodio contiene buoni testi e melodie efficaci, più in linea – e forse per questo anche più sinceri – con quanto Lewis e Guns fanno e sono oggi. Tanta è la differenza tra la lodevole consistenza di questa traccia ed il dimenticabile resto (nel quale rientrano sapori rockabilly, revival swinging london e canzoni brutalmente troncate forse perché il fonico aveva la partita di calcetto), che davvero verrebbe la voglia di considerare la band di Los Angeles come qualcosa di radicalmente mutato dai tempi di “Cocked & Loaded” (1989) e capace di affrontare il mondo contemporaneo con uno stile più morbido e rinnovato. Nonostante non manchino una manciata di canzoni che riescono tuttora a trasmettere buona energia e vibrazione (“Shattered Glass”, “Got It Wrong”), “Black Diamonds” e gli L.A. Guns danno il meglio di sé quando lasciano che sia l’anima a salire in superficie, recuperando una dimensione semplice e nuda che appare anche maggiormente coerente con la sensibilità moderna, la disillusione che prima o poi non può non subentrare in chiunque ed i conti da far quadrare a fine mese, indipendentemente da chi sei stato e sei oggi (“Lowlife”).
Vi sono gruppi del passato che hanno saputo rimanere sulla proverbiale cresta dell’onda semplicemente rimanendo uguali a se stessi, resistendo alle mode perché convinti della propria proposta, o magari solo perché incapaci di suonare altro. Ci sono poi altre realtà che la testardaggine ha condannato all’estinzione (artistica), perché l’incapacità di adattarsi e giungere al compromesso le ha spinte dolcemente ai margini ed accompagnate nel club dantesco degli irrilevanti. E poi ci sono nomi, come gli L.A. Guns, che sembrano avere sette vite come i gatti e sempre un’ultima carta da giocare per registrare un nuovo album, e concedersi un ulteriore giro di giostra: “Black Diamonds” gioca questa volta la carta vincente delle ballad, uno spiraglio attraverso il quale passa quel filo di luce fioca e di speranza flebile che – fortuna o condanna – probabilmente li terrà nel giro ancora per gli anni a venire.