Un titolo come “The Nothing” non lascia spazio a fraintendimenti. Il tredicesimo studio album dei Korn porta in superficie tutti i demoni di Jonathan Davis, che si concede di nuovo alla musica e al suo pubblico dopo la tragica scomparsa della moglie Devene. L’esperienza del dolore trova il suo esorcismo in “The Nothing”, un platter coraggioso sotto molti punti di vista, certamente più oscuro ed intricato all’indomani di un recupero delle sonorità pesanti e schizofreniche che avevano caratterizzato le ultime produzioni. Ma ci piaccia o no, gli anni novanta sono passati da un bel pezzo ed è bene che i pionieri, del nu metal o di qualsiasi altro universo musicale, non spengano la propria vitalità nelle autocitazioni.
Insomma, i Korn avrebbero potuto percorrere il sentiero più facile ma non lo hanno fatto. Tutto questo, senza rinunciare a un sound riconoscibile e ben definito che qui troviamo a sfumare e cesellare quelle manifestazioni di dubbio, rabbia e resa che emergono dai solchi di “The Nothing”. A cominciare dal gioco di parole contenuto nell’introduzione di “The End Begins”, dove l’epica cornamusa di Jonathan Davis è tutto meno che allegra, avanza con un ritmo in crescendo e si infrange sui lamenti e il pianto dello stesso vocalist. Un incipit che già lascia interdetti, sensazione ribadita dall’edita “Cold”, un brano in cui il trademark della band è inconfondibile. I ritmi sono frenetici, le chitarre di Munky e Head creano un forte impatto e le le linee di basso velatamente (ma nemmeno troppo) funky di Fieldy, si riconoscono tra mille. In questa canzone, il contributo vocale di Jonathan Davis è parecchio significativo: pulito, ora tranquillo, ora schizofrenico, si concede passaggi in growl e brevi divagazioni hip hop.
Notiamo come la struttura dei pezzi (sensazione ribadita dalla successiva “You’ll Never Find Me”, altro highlight del disco) metta al bando i virtuosismi a favore di un sound schietto e che arriva al dunque senza indugi. Minutaggio mai eccessivo, refrain che saranno pure radio-oriented ma funzionano benissimo in un contesto plumbeo. Ne abbiamo la conferma in “Idiosyncrasy” e in “Finally Free”, episodi dove non mancano aperture melodiche “boombastiche” ed un chorus pompato, mnemonico quanto basta.
I synth delicati ma freddi di “Can You Hear Me”, aprono un episodio amaro e malinconico, caratterizzato da ritmi più ragionati, una voce spesso pulita e arrendevole. Si cambia nettamente registro con la successiva “The Ringmaster”, un pezzo che, con le dovute cautele, nella sua frenesia si può accostare alle produzioni meno recenti, così come “H@rd3r”, che parte con i synth per lasciare spazio a un muro di suoni tessuto dalla coppia Munky/Head, sul quale la voce si ingrossa. Eppure il refrain, ficcante, punta di nuovo su di una fruibilità non sfacciata.
Jonathan Davis fa i conti con la vita nel finale “Surrender To Failure”, brano lento, plumbeo, che trasuda tristezza nelle parti vocali sofferenti. “The Nothing” mette a nudo il lato più sensibile ed intimo del frontman e la nuova creatura della band inevitabilmente risente di questo stato d’animo. Un disco diverso, sincero e coraggioso che suggeriamo di assimilare a piccole dosi.
