Recensione: Freedom

Sono passati undici anni dall’ultimo album in studio della band più rappresentativa della scena AOR. Una scena che è andata ripopolandosi, ma che proprio per le caratteristiche delle sonorità che la contraddistinguono, e che si richiamano fortemente all’epoca d’oro del genere, continua a mantenere nei Journey una punta di riferimento. In questi anni sono successe diverse cose, fuori e dentro la band, che esce da una battaglia legale e si presenta con una nuova line-up, in cui due musicisti di indiscutibile professionalità ed esperienza come Randy Jackson – per il quale si tratta di un ritorno a casa, avendo suonato su “Raised On Radio” seppur nel lontano 1986 – e Narada Michael Walden sostituiscono Ross Valory e Steve Smith. Sezione ritmica nuova di zecca, quindi, e sotto questo profilo tutto sommato non ci sono scossoni.

“Freedom” è un album che sicuramente non lesina sulla quantità: sono ben quindici i pezzi in scaletta, dato che non è di per sé necessariamente un pregio: nella seconda metà del lavoro, infatti, l’attenzione finisce inevitabilmente per scivolare un po’, anche per un generale ammorbidimento di ritmi e sonorità. Sia chiaro, pure “Trial By Fire” – forse il lavoro più adatto ad essere preso come pietra di paragone per “Freedom” – era un album decisamente rilassato, ma aveva la capacità di salire con il tempo e rimanere dentro grazie ad una notevole intensità emotiva. Stavolta, pure dopo ripetuti ascolti, questa sensazione affiora solo a tratti.

Ma veniamo alle note positive: si parte bene, anche molto bene, soprattutto con l’emozionante opener “Together We Run” e il buon singolo “Don’t Give Up On Us”. La classe è fuori discussione, Neal Schon e Jonathan Cain continuano a fare alla grande il loro mestiere, Arnel Pineda continua a fare in maniera per certi versi impressionante il clone di Steve Perry. Certo, da maestri come loro e dopo un’attesa così lunga ci si aspettavano dei fuochi d’artificio che non ci sono, ma ci sono diversi pezzi da menzionare: l’agile “You Got The Best Of Me”, la suggestiva conclusione affidata alla liquida “Beautiful As You Are” e fra le numerose ballad l’ariosa “Live To Love Again”. In generale, “Freedom” funziona più grazie all’atmosfera generale, questa sì inconfondibilmente legata alla band, che sui singoli episodi, e con questo spirito va affrontato. Il lavoro di contestualizzazione di Cain e quello di cesello di Schon impreziosiscono e amalgamano in maniera inconfondibile i brani più che accentuarne le differenze, e anche per questo quei pochi frangenti nei quali i Journey provano ad avventurarsi su strade meno familiari, cono sonorità più ruvide, non funzionano del tutto: in questo senso, anche se l’attesa era lunga e la fame tanta, alcuni brani sarebbero potuti rimanere tranquillamente fuori dalla scaletta.

Detto ciò, stiamo parlando di appunti rispetto ad un album che rimane di indiscutibile qualità, pur con i limiti che si portano dietro le aspettative legate ad una band che merita di continuare ad essere venerata.

Giovanni Barbo

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Appassionato di cinema americano indipendente e narrativa americana postmoderna, tra un film dei fratelli Coen e un libro di D.F.Wallace ama perdersi nelle melodie zuccherose di AOR, pomp rock, WestCoast e dintorni. Con qualche gustosa divagazione.

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