Già cantante con i Silent Rage (che, messi sotto contratto da Gene Simmons dei Kiss ottennero una buona esposizione su MTV alla fine degli anni ottanta) e successivamente protagonista di una carriera solista che lo ha visto pubblicare fino ad oggi cinque album, il cantante e chitarrista californiano Jesse Damon torna con un mix di rock melodico e metal, prodotto e suonato insieme al polistrumentista Paul Sabu. Frutto del lavoro solingo di due soli artisti, Damon’s Rage vorrebbe dunque rappresentare una proposta fresca ed originale, realizzata in completa libertà creativa ed in grado di dare libero sfogo all’estro di entrambi. In realtà, “compassato” è forse l’aggettivo che meglio racconta lo sviluppo traccia dopo traccia di Damon’s Rage, un disco che pare sequenziato su una vecchia versione di Cubase tanto regolari sono le sue strutture. Certamente l’utilizzo di una batteria elettronica – o perlomeno dai suoni elettronici – non aiuta l’album a suonare grintoso e sanguigno. E, se proprio vogliamo dirla tutta, pure l’invio al recensore di file con bitrate variabile, come si usava quando avevamo i modem a cinquantasei kappa e nessuno poteva chiamare mentre esploravamo online, non predispone ad un ascolto da connoisseur. Al contrario, la sensazione è quella di una base adatta ad una pre-produzione, completa di assoli tappabuco (“Tell Me Lili”), che possa consentire al cantante statunitense di esibire i suoi discreti talenti: voce ed attitudine da rocker consumato non mancano, ed i cori rappresentano l’elemento che dovrebbe salvare l’album dalla sua impostazione finta (“Love Gone Wild”), ritmicamente elementare e simile a quel pop estivo e deperibile che ascoltavamo in cassetta (“Electric Magic” e “Shadows Of Love” farebbero ancora una discreta figura su una delle compilation Mixage).
Una produzione così scadente finisce per compromettere anche i brani che qualche potenzialità ce l’avrebbero. La title-track, ad esempio, cresce fluida ed erompe convinta, benchè la sensazione di accozzaglia e di elementi messi assieme giusto per fare densità (controcori, assoli e fill di batteria improbabili) non scompaia propria del tutto; “Here Comes The Trouble” ha un inserto strumentale gradevole, “Wildest Dreams” qualcosa di cyberpunk riesce ad evocarlo e la pur prolissa “Flying Dutchman” possiede parte della gravitas rap/rock – seppure in versione per povery, niente a che fare con i Blue Oyster Cult – di Puff Daddy & Jimmy Page nella colonna sonora di Godzilla (1998). La scelta tanto spavalda quanto opinabile di proporre un’approssimazione lunga un’ora, perché tanto dura il disco, finisce con il dare all’intera esperienza una connotazione skippabile: se qualche banalità potrebbe essere perdonabile (“Love Is The Answer” sarebbe la ballad, mentre il titolo tronfio “Adrenaline” è più fuorviante della pubblicità delle scimmie di mare sull’ultima pagina di Telesette) o passare inosservata nell’ambito di una esecuzione più agile e breve, la cristallizzazione della formula costringe a prendere atto supinamente della fretta, della pochezza di mezzi e della sostanziale mancanza di cura con le quali questa uscita è stata maldestramente assemblata, a partire dalla sua stessa cover.
In un mercato saturo di proposte, nel quale bisogna sudare quattordici camicie per non cadere nel dimenticatoio nel giro di un paio di settimane, un disco come Damon’s Rage ha certamente un significato, benchè uno che al momento mi sfugge. E laddove persino il multi-platino Kiss Me Licia e i Bee Hive (Five Records, 1986) offre alcuni episodi musicalmente degni come “Fire”, “Baby I Love You” e “Kiss Me Licia” (ancor più nella versione strumentale), tra citazioni italoprog e melodie accattivanti, la sostanza impalpabile di Damon e Sabu non propone davvero nulla che possa alimentare il desiderio di tornare ad indagare i motivi della sua rabbia. E viene quasi da sorridere con fierezza ignorante al pensiero che, già trentacinque anni fa, italians really did it better.