Iron Maiden: Live Report della data di Imola

Domenica 15 Giugno 2003

Terza ed ultima giornata dell’Heineken Jammin Festival, quella maggiormente attesa da tutti gli headbanger italiani, visto che si tratta di una vera e propria monografia metal, con band storiche (Maiden su tutti), che si stanno affermando (Cradle of Filth), emergenti (Murderdolls) e, specialmente italiane. Sarà, infatti, il trittico Domine, Vision Divine, Lacuna Coil ad aprire le danze, risultando, alla fine superiori alla compagine straniera (Iron a parte, ma questo era prevedibile).

Si apre con i toscani Domine la giornata di domenica 15 Giugno e non penso ci possa essere stata scelta migliore, visto che l’impatto generato dal loro quadrato speed-epic metal dalle forti reminiscenze anni ’80 è stato a dir poco tellurico. La voce di Morby, vero asso nella manica e spina dorsale delle composizioni del quintetto italiano, si dimostra subito in ottima forma, con potentissimi e taglienti acuti. Inoltre, il simpatico frontman toscano dimostra tutta la sua natura da animale da palcoscenico, incitando un pubblico carico di energia, il quale esplode come il tuono di un temporale estivo proprio durante l’esecuzione dell’anthem per eccellenza dei Domine: ‘Thunderstorm’. Lineari, diretti fino a rasentare la pedissequa riproposizione di certi schemi, i Domine lanciano fendenti precisi ed essenziali come ‘True Leader of Men’ o la finale ‘Defenders’, accolta da un autentico boato dalla folla, che inneggia all’eroe di questa giornata, Morby, anche se bisogna citare lo splendido operato di un drummer di prima categoria. Una vera e propria battaglia campale, vinta senz’ombra di dubbio dai Domine ed un pubblico che sta imparando a supportare gli ‘homeboys’.

Sempre dalla Toscana giungono le tempeste, verrebbe da dire citando un brano dei Sepultura (‘From the Past come the Storms’…mica ‘From Toscana…’!). Con l’entrata sul palco dei Vision Divine si passa ad un metal più melodico ed elaborato e si ha l’occasione di testare quella che da poco è diventata la vera ed unica band di Olaf Thorsen, dopo la sua dipartita dai Labyrynth. Suoni più complessi, visto l’entrata in formazione dell’ormai ‘uomo dalle mille band’ Oleg Smirnoff, alle tastiere. I brani del cd di debutto omonimo come ‘Send me an Angel’ o ‘New Eden’ si alternano con grande efficacia a quelli nuovi come ‘The Whisper’, eseguiti magistralmente dalla funambolica chitarra di Olaf e supportati dalla devastante batteria di Matt Stancioiu. La voce di Lione, spesso sotto il tiro delle critiche per le sue non eccelse prestazioni live, questa volta si dimostra impeccabile sotto il profilo esecutivo e sfoggia una discreta grinta da frontman, con la conseguente reazione positiva del pubblico. Una band nata come side-project e vista, in principio, come formazione ‘clone’ di molte altre (specie dei Labyrytnh), che sta cercando la propria personalità artistica: come primo passo, sul versante live, le prospettive sembrano più che rosee, speriamo non si fermino.

Si chiude il trittico delle formazioni di casa nostra (finora acclamati in maniera esaltante da un pubblico che, a fine giornata, conterà più di 40,000 – secondo i dati dell’organizzazione forniti in conferenza stampa), con quella che, attualmente è una delle band più originali e di successo all’estero che l’Italia abbia finora generato: i Lacuna Coil. Ligi ed imperiosi, quanto un personaggio della saga di Matrix, nei loro spartani abiti neri, il sestetto meneghino riversa sull’audience le note di ‘To Live is to Hide’ come se fossero gocce di una pioggia incendiaria, dove grazia e spietata potenza si fondono in maniera talmente perfetta da sembrare una visione. Invece è tutto reale: le voci di Cristina ed Andrea, diverse e che s’incastrano come in una pittura di Escher. Le chitarre, forse un po’ confuse da un suono non impeccabile, tessono le trame di ‘Humane’ e ‘Swamped’, sorretti da un’essenziale quanto robusta sessione ritmica. Il tutto diventa assolutamente entusiasmante grazie alla presenza scenica della band, quasi una coreografia costante ma spontanea, che trasforma una semplice gig in un trionfo, vista l’accoglienza che Imola ha riservato ai Lacuna Coil che, in sede di conferenza stampa, tramite Cristina, hanno espresso il loro ottimismo nei confronti di un pubblico, quello italiano, che ha imparato ad essere meno esterofilo e ad apprezzare quanto di buono nasce in Italia.

Finora un autentico trionfo per le band italiane, visto il responso del pubblico. Ora, però, inizia il confronto con le band straniere e saranno gli statunitensi Murderdolls, famosi più che altro per essere il side-project di Joy Jordison batterista degli Slipknot, che qui si cimenta con la sei corde. Va detto che un solo album appare un po’ poco per meritarsi una tale posizione in scaletta, ma l’immagine della band e la fama di alcuni suoi componenti, ha permesso questa collocazione ‘privilegiata’. L’intro inquietante prepara il pubblico all’apparizione dei 5 americani, dotati di un look molto trendy e sfruttato in questo momento (tra Marylin Manson, Slipknot, Mushroom Head e Misfits), che si presentato con un rock’n’roll grezzo, molto figlio di Hellacopters e con alcuni riferimenti allo stesso Marylin Manson che si esprime in track come ‘Slit my Wristì’, ‘Die my Bride’ e ‘People Hate Me’. Sul titolo di questo brano, a dir la verità, il pubblico ha mostrato la sua particolare approvazione, cominciando un discreto bombardamento verso il quintetto a stelle e strisce. Comportamento deprecabile a parte, oltre che infantile e stupido, lo show dei Murderdolls si dimostra insipido come la loro musica, nonostante l’energia e l’indubbia professionalità che la band a stelle e strisce mette in mostra. Sarà per questo che la scaletta, alla fine, risulterà molto più corta di quella che ci era stata comunicata? Comunque, uno show senza infamia e senza lode, assolutamente non paragonabile a quello offerto dalle band in precedenza.

Siamo giunti così ai co-headliner di questa giornata, dopo la defezione degli Swan di Billy Corgan: i britannici Cradle of Filth. Con l’arrivo delle prime ombre della sera, anche se la luce è ancora ben presente, la formazione di Dani e soci riesce a non subire totalmente l’handicap di un’atmosfera assolutamente inadeguata alla propria musica. Intro e presenza di un soprano (che vale per due, vista la stazza! Due soprani zippati sono evidentemente più comodi!) sono ormai una caratteristica irrinunciabile degli show del combo albionico, che basa la sua scaletta non sull’ultimo ‘Damnation and a Day’, ma pescando in maniera eterogenea da un po’ tutti gli album. ‘Dusk and her Embrace’, ‘Funeral in Carpathia’ e la conclusiva ‘The Forest whispers my Name’, sono i pezzi forti di uno show strumentalmente intrigante, dove le chitarre, una volta tanto, non si sono dimostrate così rumorose e confuse come spesso avviene dal vivo coi C.O.F.. Adrian Erlandsson si dimostra batterista incredibile anche se un po’ fuori luogo in questa band, ma, vuoi la lunghezza dei pezzi che, in un’atmosfera così solare, non riescono a rendere al cento per cento, vuoi (soprattutto) un Dani assolutamente non in forma e che (qui mi ripeto) mostra alcuni limiti vocali dal vivo, la band fallisce un po’ la serata e questo si è visto non solo da qualche imbecille che si è divertito a bersagliare musicisti che erano impegnati a suonare, ma da un generale senso d’insoddisfazione. Il concerto si chiude con il buio che sta facendo da sipario sull’autodromo di Imola e con la litania ‘Maiden, Maiden’ che, come un canto cuthuloide chiude l’esibizione di Dani e soci. Fin’ora Italia 3, resto del mondo zero.

Iron Maiden strikes again. Difficile recensire gli Iron, ma qui non si tratta di timore reverenziale di un pischello di fronte a qualcosa che è quasi un’entità. Lo show dei Maiden, contornato da una scenografia mutante che variava ad ogni brano, ha consegnato al pubblico una band da urlo, che fa impallidire quello che attualmente è definito di moda, proprio perché il loro sguardo è sempre puntato al futuro, quasi non curante del presente. ‘The Number of the Beast’, ‘The Trooper’ e ‘Revelations’ aprono un concerto che, dopo qualche problema iniziale per l’amplificazione della voce di Bruce, sarà il tripudio dell’armonia e della compattezza. Il trittico di chitarre funziona, finalmente, a massimo regime, con le tre asce che si alternano in assoli entusiasmanti sulle note di canti di battaglia come ‘Hallowed Be Thy Name’ e ’22 Acacia Avenue’, con Jannick Gers impegnato nei suoi classici numeri da giocoliere con la sei corde. Nicko McBrain, potente e preciso, mostra la sua evoluzione tecnica impiegando in maniera massiccia il doppio pedale. Harris è Harris, la spina dorsale di ogni brano e Bruce, dall’alto di una prestazione maiuscola, sfoggia tutte le sue doti acrobatiche con numerose spaccate volanti che spingono tutta la band ad una mobilità che non si vedeva da un po’ di tempo. Viene toccato l’ultimo album con ‘The Wicker Man’ e la title-track, assieme alla suggestiva ‘The Clansman’ con Harris impegnato al basso acustico. C’è tempo anche per intermezzi umoristici e discorsi di ringraziamento di Bruce (che ha un accento troppo ‘british’ per essere compreso senza sforzi), il quale, presentando l’inedito tratto dal nuovo lavoro in uscita a Settembre, ‘Wildest Dreams’, invita i presenti a salvare e spedire via internet la track ad amici, con ovvio tripudio di pubblico, ma prega di comprare l’album tra qualche mese (Mica fesso!). ‘Fear of the Dark’, ‘Iron Maiden’ e i brani di rientro (dopo una luuunga pausa!) ‘Bring your Daughter to the Slaughter’ e l’anthem ‘Run to the Hills’, suggellano un concerto splendido, dove gli Iron fanno presagire cose nuove ed interessanti per il futuro, un futuro che è appena cominciato.

L’orizzonte è in tumulto e la quiete sta finendo…per fortuna! Alla prossima edizione!

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