I dettami dello stoner metal trovano nei gallesi Hark una traduzione interessante, certo nulla che brilli di luce propria ma costruito con tutta la competenza del caso soprattutto grazie alle ottime doti di songwriting. Il four-piece mette sul piatto sonorità molto americane che ricordano Red Fang, Kylesa, Mastodon, High On Fire e tutto quanto sia figlio di Melvins, Sleep e Kyuss. A questo aggiungiamo una spiccata propensione a rileggere l’hard/blues degli anni’70 ed ecco “Machinations”.
Platter for fans only ma godibile in tutta la sua durata, “Machinations” trova i suoi punti di forza in brani semplicemente belli e dalla natura rock’n’roll miscelata con uno stoner/sludge ruvido ma non troppo. Ogni elemento trova la sua perfetta collocazione in un contesto dove le parti suonate sono preponderanti, sebbene la voce ruvida e potente di Jimbob Isaac (anche chitarrista; gli appassionati del genere lo ricorderanno nei Taint) sappia dire la sua. Contano molto i dialoghi affilati tra le chitarre di Jimbob e di Joe Harvatt, che si dividono i pregevoli assoli, ma anche una sezione ritmica precisa e muscolare composta dal basso distorto e pulsante di Tom Shortt e dalla batteria tellurica di Simon Bonwick.
Quanto basta a rendere dei perfetti esempi di genere l’extreme blues di “Disintegrate” e “Speak In Tongues”, ancora la più criptica e “sludgy” “Premonitions”. Poche e ben dosate variazioni di stile come l’utilizzo di tastiere vintage o una personale rilettura strumentale dei Pink Floyd (“Comnixant 3.0”) assicurano quel poco di varietà che non guasta affatto. I gallesi per ora hanno imparato bene la lezione, in futuro ci aspettiamo che inseriscano una maggiore quantità di idee proprie. Intanto godiamoci “Machinations”, un disco derivativo finchè volete ma parecchio intrigante.