Recensione: The Battle At Garden’s Gate

I Greta Van Fleet sono un gruppo che riesce a suscitare varie reazioni ed emozioni negli ascoltatori. C’è chi li ama alla follia e li vede come i porta bandiera di una rinascita dell’hard rock classico e chi invece non li sopporta perché li considera dei semplici cloni dei leggendari Led Zeppelin. Ora con l’uscita del secondo lavoro “The Battle At Garden’s Gate” molti li aspettano al varco per confermare o smentire le proprie tesi. Innanzitutto va detto che sono passati ben tre anni dall’uscita dell’esordio “Anthem Of The Peaceful Army” e la formazione capitanata dai fratelli Kiszka ha avuto modo di acquisire più dimestichezza sia in sede live sia riguardo gli aspetti più tecnici rivolti alla produzione del disco, infatti si sono affidati a Greg Kurstin, nome di spicco, famoso anche per il suo lavoro con i Foo Fighters.

E’ innegabile che il retaggio con il passato e l’amore per certe sonorità sia presente anche in queste nuove dodici composizioni, ma non appare così spudorato come molti temevano. L’unico episodio prettamente Zeppeliniano è “Built By Nation”, per il resto c’è una maggiore sperimentazione negli arrangiamenti, nell’uso dei sintetizzatori e del pianoforte, una ricerca costante di appropriarsi di una identità personale e questo lo si riscontra anche nella durata delle composizioni, molto più lunghe rispetto al passato, infatti l’album sfora di poco i sessanta minuti.

Un organo da chiesa introduce “Heat Above”, uno dei singoli scelti per promuovere il nuovo lavoro e bisogna dire che pur nella sua semplicità questo pezzo cresce di ascolto in ascolto, merito della prova molto intensa del bravo Kiszka a cui segue “My Way, Soon” brano che è stato ispirato dalla vita in tour della band e di come le varie esperienze fanno cambiare le cose e metterle in prospettiva. “Broken Bells” è uno dei pezzi più riusciti e significativi dell’album dove il gruppo mostra la sua personalità e lo fa con grande maestria creando atmosfere molto evocative grazie ai lussuosi arrangiamenti degli archi accompagnati nella parte finale da un spettacolare assolo di chitarra elettrica.

Non da meno la successiva “Age Of Machine” dove i suoni si fanno più sognanti e dilatati a cui segue l’intensa “Tears Of Rain” che è sorretta dal suono di un piano solenne e triste e dove la voce del bravo cantante è ancora una volta un punto di forza, mentre “Stardust Chords” non fa altro che seguire fedelmente le linee guida dell’album in saliscendi emozionali notevoli. E’ doveroso segnalare nella seconda parte del disco “Light My Love” che è un brano guidato dal pianoforte e dove l’uso abbondante delle chitarre acustiche serve per aggiungere profondità al pezzo, “Caravel”, un hard rock classico e sanguigno dallo spirito spavaldo che tanto amiamo e la conclusiva ed epica cavalcata di quasi nove minuti “The Weight Of Dreams”, monumentale e degna conclusione di un lavoro impegnativo e di non facile assimilazione.

The Battle At Garden’s Gate” è un disco che va sentito svariate volte e che cresce di ascolto in ascolto, un album più maturo rispetto al passato e che riesce a tracciare un percorso verso una identità artistica più personale per la band del Michigan. Sicuramente si continuerà a parlare di loro nel bene o nel male, dal canto nostro non possiamo far altro che riconoscere al gruppo la volontà di innovarsi, sebbene in un genere retrò come questo e bisogna dargli atto che stanno facendo dei passi nella direzione giusta.

Eva Cociani

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Amo la musica a 360 gradi, non mi piace avere etichette addosso, le trovo limitanti e antiquate, prediligo lo street, il glam e anche il goth, ma non disdegno nulla basta che provochi emozioni. Ossessionata dalle serie tv, dalla fotografia, dai viaggi e dai live show mi identifico con il motto: “Live the life to the fullest”.

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