Frontiers Rock Festival: Live Report e foto del Day 1

Non credo ci siano dubbi nell’assegnare al Frontiers Rock Festival la palma di kermesse di maggior richiamo per gli appassionati dell’hard e melodic rock nazionali, e non solo. Arrivato alla quinta edizione il Festival ha sempre portato in alto nel migliore dei modi il nome della label napoletana, risultando sempre perfettamente organizzato e, prima ancora che un concerto, una vera e propria festa, dove incontrare amici e musicisti. E quest’anno non ha fatto eccezione! Pronti il resoconto degli show nel dettaglio?

HELL IN THE CLUB

Ad aprire ci pensano i nostra compaesani Hell In The Club. Stupisce un minimo vederli così presto, visto che sia per l’esperienza maturata che per la oggettiva professionalità e qualità della proposta avrebbero forse meritato un pochino più di tempo a disposizione, Nei minuti concessi comunque il gruppo ha fatto vedere di che pasta è fatto, rovesciando sui (già non pochi) presenti tutta l’energia di cui dispone. La scaletta pesca qualcosa da tutte e quattro le uscite della band, anche se pure i brani più vecchi hanno subito un piccolo indurimento in linea con le ultime tendenze del gruppo. Divertente il siparietto durante “Houston, We Got No Money”, con un astronauta impegnato a lanciare banconote griffate Hell In The Club sull’audience. Promossi!

BIGFOOT

I giovani Bigfoot hanno dalla loro una sfrontatezza e una bella carica, incarnata soprattutto da un frontman istrionico e divertentissimo da seguire nelle sue evoluzioni. Come su album però ci pare che alla band manchi ancora qualcosa dal punto di vista della qualità compositiva. Brani come “The Fear”, “Freak Show” o “Bitch Killer” hanno dei riff potenti, ma non funziona poi benissimo quando si tratta di abbinare una linea vocale convincente (almeno a mio gusto). Stesso discorso, a maggior ragione, per la melodica “Forever Alone”, canzone che scivola via senza lasciare segno. Molto bene per l’attitudine sul palco, ed infatti il pubblico ha dimostrato di apprezzare, ma con ancora qualche cosa da migliorare.

 

 

 

AMMUNITION

Se volevate uno show diverte e pieno di ritornelli da cantare gli Ammunition di Age Sten Nilsen sono una garanzia. Al netto dei troppi problemi tecnici avuti, che hanno inficiato un poco il ritmo dello show e probabilmente impedito ai nostri di dare il loro meglio, la band ha dimostrato di sapersi muovere (e qui l’esperienza si è vista) e, soprattutto, di avere canzoni come “Silverpack”, “Freedom Finder” o “Eye For An Eye” che dal vivo rendono in modo spettacolare. Manca, forse, nel format della band quel qualcosa in più a livello tecnico strumentale nella struttura delle composizioni capace di elevarli ulteriormente, ma per chi cerca l’impatto immediato e il refrain da cantare c’è parecchio di che godere. La scaletta si chiude con “Wrecking Crew” (un grande successo in patria) e non posso che fare loro i complimenti per la professionalità mostrata nonostante i problemi avuti.

 

 

 

PRAYING MANTIS

In quanto ad esperienza, quella dei fratelli Troy ha ben poco da invidiare a chiunque… quarant’anni e oltre passati alla corte dell’hard rock più sanguigno e tipicamente british non sono poca cosa e il loro concerto è stato un piccolo riassunto di una vita dedicata alla musica. Impossibile non esaltarsi durante l’esecuzione di un brano storico come “Panic In the Streets”, ma anche canzoni tratte dagli album recenti, come “Believable”, “Fight For Your Honor” la nuova “Keep It Alive” mettono in luce la bella voce del cantante John Cuijpers e la compattezza della band. Buono il feeling con l’audience e eccellente il finale di scaletta affidato a due pezzi di storia come “Time Slipping Away” e “Children Of The Earth”. Forse nella vita non ci sono molte certezze, ma i Praying Mantis sono una di queste.

 

 

 

MICHAEL THOMPSON BAND

Senza voler offendere nessuna delle band che fino a qui si sono esibite, ma con l’arrivo sul palco della MTB il livello si alza in modo drastico. Non solo ci sono musicisti bravissimi e canzoni che null’altro possono essere definite se non piccole gemme come “Stranger” o “Give Love A Chance”, ma quando a toccare la chitarra è Michael Thompson sembra di trovarsi al cospetto un pittore di note e la sua musica diventa come un instant picture ricco di espressività. Un artista con una personalità inimitabile e un gusto che trascende il genere o le preferenze personali. Che dire poi di un cantante come Larry King? La sua è una voce splendida, cristallina e anche il suo modo di tenere il palco, con simpatia e grande tranquillità, si abbina alla perfezione con l’atmosfera di brani bellissimi come “High Times” e “Wasteland” o al tributo finale al genere fatto con l’esecuzione del megaclassico dei Boston “More Than A Feeling”. Molto interessante anche la nuova “72 Camaro”, preludio ad un album in uscita che ci aspettiamo come una probabile bomba! Stay tuned!

 

 

 

QUIET RIOT

Ci sono i musicisti, e poi ci sono le canzoni. Ecco, i Quiet Riot di oggi sono una band che basa tutto il proprio appeal su queste ultime, perché per il resto ci troviamo di fronte ad una formazione che poco ha a che spartire con il gruppo che nel 1983 diede il via alla rivoluzione che portò l’hard rock a dominare le chart americane per quasi dieci anni. Se infatti il buon Frankie Banali se la cava sempre, gli altri ci sono sembrati degli onesti comprimari, sicuramente vogliosi di metterci del loro, ma non così indispensabili. Difficile non provare simpatia per un cantante giovane e sfrontato come James Durbin, ma tenere il passo di un’icona come Kevin DuBrow non è impresa che mi pare essere nelle sue corde. Così come ci sono mancate le parti di chitarra di un certo Carlos Cavazo. Non c’è dubbio però che quando ti arrivano in faccia uno dopo l’altra canzoni come “Let’s get Crazy”, “Cum On Feel The Noize” e “Metal Health (Bang Your Head)”… allora si tende a dimenticare tutto e semplicemente… ci si diverte. Una menzione particolare va all’esecuzione di “Thunderbird”, qui suonata per la prima volta dal vivo con l’ausilio del piano, grazie all’aiuto di Alessandro Del Vecchio, e dedicata a chi purtroppo non c’è più. Un tributo sincero che ha toccato tutti i presenti. Tutta la stima possibile per la voglia che ci hanno messo, ma, non me vogliate, i miei Quiet Riot sono un’altra band.

 

 

 

STRYPER

Ma non era un concerto hard rock questo qui? Forse agli Stryper nessuno lo ha detto, visto che, in realtà come prevedibile, ascoltando le ultime uscite, i nostri aprono le danze con due canzoni super metal come “Yahweh” e “The Valley”… gloriosi esempi di heavy epico e potentissimo, incarnato alla grande da un Michael Sweet da brividi, superbo sia nella performance vocale che come chitarrista. Forse anche a causa della stanchezza accumulata nella giornata (e di ragazzini non ce n’erano in giro) una parte del pubblico sembra quasi impietrita da tanta aggressività e comprensibilmente. L’esecuzione di “Calling On You” e “Free” permette già una maggiore interazione, ma anche qui appare evidente che gli Stryper non hanno intenzione di ridurre la propria carica metallica neanche andando a ripescare i brani storici, suonati tutti con un piglio più aggressivo del solito e un riffing spesso più serrato e compresso (esempio evidente ci ciò è la versione durissima di “In God We Trust”). Dopo l’iniziale imbarazzo il pubblico progressivamente si scalda e la partecipazione cresce… arriva immancabile il lancio delle bibbie e il dialogo molto rilassato di Michael Sweet con il pubblico lascia intendere che tutto stia filando via liscio. La scaletta non presenta di fatto grosse sorprese, essendo più o meno una sorta di “best of”. Se escludiamo l’aggiunta dei brani più recenti, che sono davvero ottimi in sede live, ma che forse una parte del pubblico conosceva meno, sono superclassici come “Always There For You”, “Honestly” o “The Way” (durissima in questa versione) a scatenare le reazioni più genuine. L’encore assegnato a “To Hell With the Devil” è un finale più che gradito per un concerto senza sbavature che, se pur agli antipodi stilisticamente, ha rappresentato insieme alla Michael Thompson Band il top della giornata.

riccardo.manazza

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Incapace di vivere lontano dalla musica per più di qualche ora è il “vecchio” della compagnia. In redazione fin dal 2000 ha passato più o meno tutta la sua vita ad ascoltare metal, cominciando negli anni ottanta e scoprendo solo di recente di essere tanto fuori moda da essere definito old school. Il commento più comune alle sue idee musicali è “sei il solito metallaro del cxxxo”, ma d'altronde quando si nasce in piena notte durante una tempesta di fulmini, il destino appare segnato sin dai primi minuti di vita. Tra i quesiti esistenziali che lo affliggono i più comuni sono il chiedersi il perché le band che non sanno scrivere canzoni si ostinino ad autodefinirsi prog o avant-qualcosa, e il come sia possibile che non sia ancora stato creato un culto ufficiale dei Mercyful Fate.

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