È ufficiale: il recensore si arrende.
Definire i Fen una band in ascesa libera sarebbe un eufemismo. Il gruppo (ormai ridotto ad un misero trio con l’uso di effetti di tastiera in sede live e in studio) nacque come uno dei tanti progetti dei fratelli The Watcher (Frank Allain, chitarra elettrica e voce) e Grungyn (Adam Allain, basso), già reduci di altri progetti finiti male dopo qualche anno (Skaldic Curse, per esempio), finendo per diventare quello più longevo. Fin dal monumentale debutto, “The Malediction Fields”, era chiaro che non fossero un gruppo comune, mixando sapientemente le possenti sonorità del post-black del secondo millennio, il rock psichedelico con accordi sospesi a corda aperta dei Fields of the Nephilim, il prorompente incedere in blast-beat di titani come Agalloch e Immortal e un’occasionale fissazione per melodie imperfette che ricordano il rock contemporaneo degli Editors e Interpol (oppure dei Coldplay più seri, se volete).
Non fu difficile immaginare che il gruppo avrebbe osato di più nei successivi album, come effettivamente provarono “Epoch”, “Dustwalker”, “Carrion Skies” e “Winter”, pubblicati tra il 2011 e il 2016: progressivamente più lunghi (l’ultimo di quasi 80 minuti), epici e dediti ad atmosfere progressive rock con occasionali giri di tecnica. Tanto bastò il gruppo a diventare una macchina da concerti professionista in giro per il globo, partendo dalla Gran Bretagna (luogo d’origine) e andando in tour con gli Agalloch: inutile dire che, dopo la fine di quest’ultimi (che difficilmente si riformeranno in futuro, visto il recente scandalo dei commenti antisemiti di John Haughm a febbraio che hanno portato anche allo scioglimento dei Pillorian), i Fen sono diventati una terrificante alternativa, oltre che uno dei gruppi definitivi della decade ormai agli sgoccioli.
“Winter” era un mattone immenso pieno di pathos ma lento a scorrere: non stupisce quindi che l’ultimo album del gruppo, “The Dead Light”, sia decisamente più corto, ancora più corto se si considera che la prima e la terza traccia (quest’ultima una coda spezzata della title track) sembrano più interludi che canzoni, a causa del loro crescendo in ritardo e lunghe sezioni strumentali. Un altro shock arriva con la prima parte della title track: è impossibile non urlare “Vanden Plas”, un nome specializzato in groove così monolitici. Ritmi simili appaiono anche in “Labyrinthine Echoes”, che alterna comunque sezioni più tipiche degli ultimi Katatonia che di loro. “Nebula” e “Breath of Void” includono arpeggi di chitarra più familiari e melodie ariose, ma si basano su background di batteria danzabili presi direttamente dal metalcore, mentre “Exsanguination”, con le proprie influenze Opeth mostrate in evidenza, e “Rendered in Onyx”, la traccia più complessa del lotto, si rivelano essere i soli due punti inattaccabili.
“The Dead Light” è un album insolito, scorrevole ma tendente più alla pesantezza che all’atmosfera… non esattamente l’album che chiunque si aspetterebbe da un gruppo del genere. Comunque, fra tour internazionali, Fen, De Arma, Fellwarden, Kaon, Pantheist e Virophage, la vita dei fratelli Allain è diventata molto più attiva e complicata, musicalmente parlando, mentre la presenza del nuovo batterista Pete Alpin è vista con una punta di sospetto. Sebbene si tratti comunque di un album con tanto valore artistico e tutto tranne che scontato, questa pubblicazione oscura leggermente la luce dei Fen e getta qualche dubbio sulla loro stabilità futura… e considerando gli immensi risultati raggiunti dalla loro fondazione, francamente era ora!
Etichetta: Prophecy Productions Anno: 2019 Tracklist: 01. Witness 02. The Dead Light Part 1 03. The Dead Light Part 2 04. Nebula 05. Labyrinthine Echoes 06. Breath of Void 07. Exsanguination 08. Rendered in Onyx |